da: la Repubblica of the Arts |
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Cimabue e Giotto ad Assisi: la vera storia degli affreschi
di Luciano Bellosi e Giovanna Ragionieri
Nella Basilica di San Francesco ad Assisi si gioca
il rinnovamento della pittura italiana tra Due e Trecento: nel giro di pochi
anni le pareti delle due chiese sovrapposte accolgono infatti il meglio
della pittura italiana, da Cimabue a Giotto, a Simone Martini, a Pietro
Lorenzetti, a Puccio Capanna. Ciò non avviene per caso: la Basilica, fondata
nel 1228, un anno dopo la morte del Santo, e consacrata nel 1253,
trascendeva per importanza l'ambito territoriale umbro e poteva essere
considerata, dal punto di vista religioso come da quello artistico, una
chiesa europea, alla cui costruzione e decorazione concorreva tutta la
cristianità; né, d'altra parte, essa era soggetta esclusivamente all'ordine
francescano. Voluta dal papato, era di proprietà papale: era il pontefice -o
un suo rappresentante- a prendere le principali decisioni, non i francescani
o il loro generale.
La straordinaria vicenda pittorica della Basilica
francescana iniziò, nella seconda metà del Duecento, dalla chiesa inferiore,
con un grande anonimo umbro, seguace di Giunta Pisano, il Maestro di San
Francesco; quella superiore, invece, dopo essere stata dotata di un
imponente apparato di vetrate, fra le più importanti d'Italia, eseguite in
larga parte da artisti oltralpini, tardò a ricevere una decorazione murale.
Quando ciò avvenne, si adottò la tecnica dell'affresco, probabilmente
ritenuta più povera del mosaico e della scultura, ma la si adottò in modo
così impegnativo e totalizzante da dipingere tutti gli spazi disponibili,
perfino i costoloni delle volte e i piloni a fascio delle pareti, e da
utilizzare materiali di prima qualità, addirittura la foglia d'oro, non solo
nelle aureole ma - cosa del tutto eccezionale - anche nei fondi delle volte
figurate. Da questo momento, la Basilica Superiore diviene un modello per
tutte le chiese francescane, che tenderanno ad essere affrescate
integralmente; soprattutto, incomincia da qui la grandiosa avventura
dell'affresco, così intimamente connessa al percorso dell'arte italiana:
proprio ad Assisi, anzi, si verifica il passaggio dal metodo delle pontate a
quello delle giornate, l'innovazione tecnica che permetterà una migliore
conservazione e una più lunga durata.
Il carattere sovranazionale
della Basilica spiega bene il fatto che la decorazione ad affresco della
chiesa superiore, nelle pareti alte del transetto destro, inizi ad opera di
una maestranza oltremontana, di cultura affine a quella in auge tra Londra e
Parigi nella seconda meta' deI Duecento. Come ha ben argomentato Hans
Belting nel libro sulla decorazione della Basilica Superiore pubblicato nel
1977, questi dipinti riecheggiano le decorazioni murali (ormai quasi
perdute) delle cattedrali gotiche, fondate sull'integrazione tra pittura,
scultura e architettura, con arcature cieche completate da architetture e da
figurazioni dipinte e dall'applicazione di materiali, come le rosette
aggettanti sui fondi blu anche le aureole rilevate e raggiate nascono da
questa concezione; esse verranno adottate da tutti i pittori di Assisi e
diverranno la norma per la pittura ad affresco del Trecento, finché Cennino
Cennini ne codificherà l'uso, alla fine del secolo, nel suo Libro
dell'arte.
Dopo la parentesi costituita dall'intervento di un
pittore romano -probabilmente Jacopo Torriti- che si attiene in linea di
massima al modello oltremontano, subentra Cimabue, che lo segue pur
apportando alcune varianti significative. Queste circostanze dimostrano che
la decorazione della Basilica Superiore non fu, come talvolta si sostiene,
un processo lungo e soggetto a ripetute interruzioni, ma venne progettata e
condotta in modo sostanzialmente unitario, all'insegna dell'illusionismo di
matrice gotica, e compiuta in un numero limitato di anni. In tutta la
chiesa, infatti, le pareti alte contengono motivi di architetture dipinte
come quelle del transetto, mentre tornano nella navata alcuni spunti
introdotti da Cimabue, dalla fila di mensole che fingono di sorreggere un
architrave al velano dipinto appeso sotto le figurazioni dello zoccolo, alle
decorazioni cosmatesche, che lui, primo fra i pittori, seppe imitare dai
mosaici polimaterici dei marmorari romani del Medioevo. Le varianti proposte
da Cimabue rispetto allo schema dei pittori del transetto destro consistono
dunque in un rifiuto delle soluzioni stilistiche gotiche e nell'introduzione
in funzione illusionistica di sistemi decorativi antichi e medievali di
fonte romana. Sullo sfondo di questo processo che si svolge all'interno
della Basilica di Assisi è infatti l'esperienza diretta dei monumenti
romani, che Cimabue conobbe durante un soggiorno documentato nel 1272 e
riprodusse nella Crocifissione di San Pietro del transetto destro e
soprattutto nella vela con San Marco, che contiene una vera e propria veduta
dell'Urbe.
Non meno organico è il programma iconografico, che
sostanzialmente deve essere stato elaborato per intero fin dall'inizio e
scaturisce dal seno di un francescanesimo diverso da quello delle origini,
in cui la maggioranza dei chierici è acculturata. e il possesso di beni da
parte dell'ordine ormai accettato. Figura centrale di questa trasformazione
è San Bonaventura, francescano, cardinale e professore universitario
(1221-1274), nei cui scritti (e in particolare nella
Legenda Maior, biografia definitiva di San Francesco che soppiantò
tutti i testi precedenti, condannati addirittura al rogo nel capitolo di
Parigi del 1266) la forza potenzialmente rivoluzionaria delle idee di San
Francesco è ricondotta a un itinerario mistico individuale di imitazione di
Cristo, suggellato dalle stimmate. Proprio alle idee e agli scritti di
Bonaventura, mediati dall'opera di un suo seguace, il cardinale Matteo
d'Acquasparta (1240 circa-1302), esponente di punta della corrente
"conventuale" dei francescani, si possono ricondurre le figurazioni presenti
nella Basilica Superiore.
Ma quando è stata decorata la Basilica? In
assenza di documenti o di dati precisi, le ipotesi elaborate su base
stilistica o in rapporto con le vicende storiche hanno dato luogo a un
'intera biblioteca. Non siamo soli a proporre che tutta la Basilica sia
stata affrescata sotto Niccolò IV (1288-1292), il primo papa francescano,
noto per l'attenzione rivolta ad Assisi e per le numerose commissioni
artistiche (due atteggiamenti che si compendiano nel magnifico calice con
smalti traslucidi eseguito dal senese Guccio di Mannaia, donato da questo
papa alla Basilica francescana), nonché per il favore accordato al pittore
romano Jacopo Torriti, che infatti lavora ad Assisi nel transetto e nella
navata. Questo pontefice, quindi, e non Niccolò III (1277- 1280), come si è
spesso sostenuto, è il più probabile committente degli affreschi di Cimabue,
che raffigurano i quattro temi fondamentali della devozione francescana,
enumerati dallo stesso Bonaventura: la Passione di Cristo (le due grandi
Crocifissioni sulle pareti orientali dei due transetti, non visibili dalla
navata), Maria (l'abside ), San Pietro, San Paolo e gli apostoli (il
transetto destro), San Michele e gli angeli (il transetto sinistro). La
fascia inferiore di questo ciclo viene spesso indicata come illustrazione
dell'Apocalisse, ma ciò sembra smentito da testimonianze liturgiche, anche
remote, e dal rilievo che le figure angeliche, distinte anche riguardo alla
gerarchia di appartenenza, assumono rispetto alle altre. La volta con i
quattro Evangelisti (di cui faceva parte la vela con San Matteo, crollata
nel terremoto del 26 settembre 1997) connette gli affreschi delle pareti tra
loro e con le volte della navata.
Ci sembra che una serie di
argomenti avvalorino questa datazione. Il primo è che Cimabue, tanto seguito
in Toscana, non esercita profonda e duratura influenza in Umbria,
diversamente da Giunta Pisano prima di lui e da Giotto dopo, come se
l'impatto degli affreschi di Assisi fosse stato limitato dall'avvento
dirompente e quasi immediato del giovane Giotto.
Da un punto di vista
strettamente stilistico, i confronti tra gli affreschi di Assisi e il San
Giovanni nel mosaico absidale del Duomo di Pisa, a cui Cimabue lavorava
prima di morire nel 1302 (l'unica opera documentata dell'artista), rivelano
forti analogie, ma anche un piglio energico, un'artigliatura, un'acutezza,
una grinta che si rifanno ad opere più antiche come la Madonna del Louvre.
Una datazione intermedia sembra confermata da alcuni dettagli significativi:
per esempio le pieghe del manto sopra la testa della Vergine, che assumono
una disposizione più verticale, oppure i nasi, adunchi come nelle opere più
antiche, ma con le narici evidenziate da una linea obliqua simile a un
taglio che sale verso la punta del naso.
Con gli affreschi di Assisi,
Cimabue, più o meno cinquantenne (se, come di solito si ritiene, era nato a
Firenze attorno al 1240), affronta la commissione più prestigiosa e
impegnativa della sua carriera; e lo fa con una vastità di pensieri e con
una capacità di coordinamento davvero impressionanti, con un risultato
rigorosamente unitario, un respiro formale vasto e profondo; arriva talvolta
a sfiorare l'allucinazione visionaria, evitando però l'irrazionalità per una
naturale potenza strutturante: si osservi la scena della Visione degli
angeli ai quattro angoli della terra, dove i quattro angoli sono
rappresentati, simbolicamente, come ante di un paravento merlato, mentre la
terra non mostra segni di devastazione, con i suoi caseggiati in ordine e
gli alberi ancora saldamente abbarbicati sulle alture, mentre gli
incredibili angeli,seminudi, senza aureola, con i capelli scarmigliati e
allo stesso tempo così ritualmente iterati, sembrano divinità barbariche; o
idoli di un sabba stregonesco. Il suo costante tono alto acquista ad Assisi
una valenza sublime e si anima di accenti appassionati e patetici;
un'animazione continua sommuove le figurazioni, arrivando a una sconvolgente
agitazione nelle scene più drammatiche e riversandosi sulle vesti mosse e
sui panni svolazzanti, come nel perizoma del Cristo nella celebre
Crocifissione del transetto sinistro. Vi si sente qualcosa dello spirito che
anima certe figurazioni della tarda antichità, o carolinge, come le
miniature della scuola di Reims, a cui si apparentano misteriosamente gli
Evangelisti della volta, o gli sbalzi dell'altare di Vuolvinio in
Sant'Ambrogio a Milano.
Una difficoltà nella valutazione di questi
affreschi, anche prima del terremoto del settembre 1997, viene dal loro
penoso stato di conservazione, già testimoniato da Giorgio Vasari, che nel
1568 li diceva "dal tempo e dalla polvere consumati", e non risolto dai
numerosi restauri succedutisi nel corso dei secoli (il più recente, sotto la
sorveglianza dell'Istituto Centrale del Restauro e della Soprintendenza ai
Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici dell'Umbria, fra il 1978
e il 1980). Oltre alla caduta di vaste zone di pittura a secco e alle
ridipinture, che hanno snaturato in particolare le scene mariane
dell'abside, il danno maggiore è venuto dall'ossidazione della biacca, un
composto del piombo che doveva sottolineare le parti più in luce della
figurazione, anneritesi invece per una reazione chimica molto rara, forse
catalizzata da un evento straordinario (si è pensato alla scarica di un
fulmine). Del resto, anche Cennino Cennini consigliava l'uso della biacca
per le tavole, ma ammoniva: "ben si adopera in muro: guardatene quanto puoi,
ché per ispazio di tempo vien nera". Soltanto in qualche brano, soprattutto
nelle larghe fasce che rivestono i costoloni candidi della volta, pezzati di
rosso e di blu e segnati da un nastrino dorato, si legge ancora la
trasparenza minerale dei colori originari: fondi di un rosso pompeiano,
splendore profondo di preziose paste vitree o di corniole, spiazzi di blu
dove l'azzurrite vira in malachite, racemi di un verde pallido come di
giada, grandi foglie di un rosso fiammante.
Non si legge più, invece,
il chiaroscuro di Cimabue (ancora ben visibile, invece, in gran parte delle
sue opere su tavola), che scompone sistematicamente il colore, con una
tecnica quasi divisionista, in tanti filamenti eseguiti con la punta del
pennello e dona alla superficie una vibrazione, una trasparenza e una
preziosità sconosciute alla pittura bizantina, ma ancora lontane dal
chiaroscuro plastico della pittura trecentesca. Tuttavia ne è il precedente
immediato e indispensabile, come dimostra il confronto, nella decorazione
della Basilica Superioe di Assisi, tra gli affreschi di Cimabue nel coro e
nel transetto e quelli della navata, in cui il sostanziale rinnovamento dato
dall'uso di una sola fonte di luce non ci impedisce di riconòscere il
sistema di scomposizione chiaroscurale inventato da Cimabue.
Come è
noto, con gli affreschi della navata ci troviamo davanti al mutamento forse
più radicale nella storia della pittura italiana, che prende il via
all'altezza delle due scene gemelle delle Storie d 'Isacco , prosegue
in alcune delle Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento dei
registri alti della navata e nella Volta dei Dottori (in parte
crollata nel terremoto del 1997) e si compie con le Storie di San
Francesco: un mutamento legato al nome di Giotto, ma messo in rapporto
con altri artisti, e in particolare con quelli della scuola romana, da un
consistente filone critico, che potremmo chiamare "separatista" per affinità
con la celebre questione omerica. In questa tendenza, nata tra Otto e
Novecento in area tedesca, trapiantata in quella angloamericana e più di
recente ripresa da studiosi italiani, la voce più autorevole è quella di
Richard Offner, che, in un celebre saggio intitolato programmaticamente
Giotto - non Giotto (1939), assume gli affreschi della cappella
Scrovegni a Padova (1303-1305) non solo come paradigma dello stile di
Giotto, ma come sua opera più antica. Rispetto a essi, le Storie di San
Francesco
risultano più disegnate e meno pittoriche, più naturalistiche e meno
idealizzanti, tanto da dover essere attribuite ad altra mano. Ma in realtà
le differenze sono innanzi tutto dovute ai modi più arcaici degli affreschi
assisiati, i quali, diversamente da quanto pensano i "separatisti", vanno
datati molto prima della cappella Scrovegni, e cioè agli inizi degli anni
novanta del 1200: oltre alle considerazioni generali sulla decorazione della
basilica, lo indicano tra l'altro la foggia dei costumi e l'iconografia del
San Francesco barbato. Giotto, nato attorno al 1267, poteva ben essere
operoso a questa data.
Il più recente stimolo al dibattito è stato
portato da Bruno Zanardi e da Federico Zeri: anche se presentata in un
volume intitolato Il cantiere di Giotto
la loro proposta (poi ampliata e precisata in una serie di interventi a
carattere pubblicistico) tende a distinguere nel ciclo francescano tre
pittori, uno dei quali potrebbe essere identificato con il romano Pietro
Cavallini A nostro parere, le cose sono più semplici e insieme più
complesse. Più semplici, perché una mente unica ha impostato tutto il
complesso degli affreschi, come dimostra fra l'altro la loro impaginazione;
più complesse, perché si possono distinguere ben più di tre esecutori,
operanti a stretto contatto e spesso nello stesso affresco, anche molto
diversi tra loro per caratteristiche e per formazione, non sempre in grado
di comprendere e mettere in pratica le istruzioni del maestro. Come ha
scritto Roberto Longhi, il ciclo francescano è "un testo da ricostituire, da
rettificare attraverso i tanti errori di ortografia commessi dagli esecutori
cui Giotto forniva talora, non sappiamo in che forma, soltanto una traccia
che un nonnulla bastava a diminuire". Per fare un solo esempio, nella
Morte dl San Francesco, tra gli angeli che sollevano in cielo l'animula
del Santo quelli interni sono di esecuzione pessima, quelli esterni di
qualità talmente alta da far pensare addirittura a un'autografia giottesca.
Nelle ultime scene, poi, ha molto spazio un "gregario di lusso",
identificabile forse con Palmerino di Guido, pittore eugubino che figura
come procuratore di Giotto ad Assisi in un importante documento del 1309.
Mettere in campo il nome di Cavallini per le Storie di San Francesco
vuoi dire invece riproporre vecchie polemiche fra scuola romana e scuola
fiorentina, che rimandano al momento in cui vennero riscoperti i suoi
affreschi di Santa Cecilia in Trastevere e a quella tendenza critica che
spiegava come "romanizzanti" ("romanizing") molti degli aspetti della
pittura italiana di primo Trecento. Peraltro, l'attribuzione a lui di alcuni
brani degli affreschi di Assisi si fonda su confronti troppo ravvicinati,
che, come ben dovrebbe sapere un conoscitore del rango di Federico Zeri, non
sono illuminanti.
Quelli da lui proposti tra particolari di Giotto e
di Cavallini dimostrano affinità di modi esecutivi, più che di stile, e
chiariscono anzi che Cavallini ha imparato dalle Storie di San Francesco,
forse salendo sui ponteggi di Assisi, mentre non ci sembra dimostrabile che
abbia partecipato alla loro esecuzione.
Crediamo giusto porre
l'accento sugli affreschi dei registri alti, in origine trascurati o
decisamente collocati in area romana dagli studiosi del fronte
"separatista", per gli elementi di novità rispetto alla tradizione
precedente e, almeno nel caso delle Storie di Isacco, per la loro
qualità elevatissima: è sintomatico della loro importanza, ma anche di
qualche difficoltà delle tesi "separatiste", il fatto che alcuni studiosi
americani, tra cui Millard Meiss, siano giunti a considerarli opera di
Giotto, pur negando al maestro fiorentino il ciclo francescano. Questi
affreschi presentano notevoli punti di contatto con opere giovanili di
Giotto conservate a Firenze o nel suo territorio, come la Madonna
di San Giorgio alla Costa e quella di Borgo San Lorenzo, prodigioso
frammento scoperto poco più di dieci anni fa sotto una grossolana
ridipintura, ma soprattutto il Crocifisso di Santa Maria Novella, per
cui una serie di dati storici, iconografici e stilistici suggeriscono una
datazione molto precoce. Con il restauro (non ancora reso noto al pubblico
ma sostanzialmente concluso) sono aumentate le possibilità di confronti
diretti tra il Crocifisso e le Storie di Isacco: ci sembra che
questo non solo confermi l'attribuzione a Giotto, ma anche smentisca le tesi
di una profonda influenza su di lui della scuola romana e dimostri che la
sua formazione si è svolta in ambito fiorentino. Quello che di Roma doveva
più impressionare Giotto, e Cimabue prima di lui, non erano le opere dei
pittori loro contemporanei, ma la grande tradizione monumentale della città,
che essi fanno propria fin quasi a sentirsi "romani" (come accadeva anche ad
Arnolfo di Cambio), se con questa parola intendiamo che la polemica dei due
pittori contro il modello proposto dal maestro oltremontano aveva il suo
punto di riferimento in Roma e nella cultura che questa città simboleggiava.
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