Bruno Zevi, Storia e controstoria dell'architettura
in Italia
Non-finito del genio michelangiolesco
Biblioteca Laurenziana a Firenze, Sacrestia nuova d San Lorenzo e
fortificazioni fiorentine. Palazzo Farnese. Campidoglio. San Pietro,
porta Pia, Santa Maria degli Angeli a Roma.
Cresciuto nel sinistro ambiente fiorentino di Lorenzo de’ Medici,
quando la floridezza economica del primo rinascimento è già entrata in
crisi, e ad un’epoca di espansione capitalista segue un periodo
dominato da una generazione, dice Hauser, di ricchi ereditieri e figli
viziati, Michelangiolo Buonarroti (1475-1564) vive in una società
mendace che protegge molti artisti, ma non a caso esclude le
personalità indipendenti che non si piegano alle indulgenze di un
neoplatonismo guardingo.
In quel mondo nefasto Michelangiolo rivela il
suo disagio, uno stato di paura che più tardi assumerà dimensioni
esistenziali. Fra gli anatemi di Savonarola e il fantoccio di neve che
Piero de’ Medici, quasi con sadismo, gli impone di plasmare, il
terrore del mestiere di vivere e insieme della morte lo afferra
segnando piaghe perenni. I catastrofici eventi dei successivi decenni, dal sacco di Roma e dall’ assedio di Firenze alla controriforma
e all’inquisizione, lo vedono incalzato da impulsi contrari, ora da
moti di coraggio, subito dopo da una delusa passività e da abbandoni
disperati. Il trapasso dalla condizione sociologica a quella linguistica è
immediato. Se alla sana economia dei decenni iniziali del
Quattrocento corrispondono un atteggiamento razionale, antiscolastico
e antiascetico, la rappresentazione prospettica elementare e omogenea,
un’equilibrata ricerca proporzionale, alla situazione instabile della
fine del secolo, e specie del cinquantennio posteriore, fa eco il
crollo di tali valori. Gioco alterno, demoralizzante e tormentoso:
un’incessante ripresa del repertorio umanistico, l’unico disponibile,
e la sua subitanea denuncia.
La circostanza che Michelangiolo abbia
lavorato prevalentemente su edifici imbastiti da altri non è senza
significato: gli occorreva una trama classicista, di Antonio da
Sangallo a palazzo Farnese o di Bramante a San Pietro, per aggredirla,
sconvolgerla, comunque deformarla. Quando può disegnare un palazzo
tutto suo, per esempio quello dei Conservatori in Campidoglio, sembra
scindersi in due ruoli: l’uno, rinascimentale, che traccia lo schema
del la sovrapposizione dei piani. l’altro che tale ordito infrange ed
oltraggia. Il non-finito erompe da questa situazione, da scatti
furenti che non sanno placarsi in un sistema linguistico
istituzionalizzato perché sgorgano dall’inconscia urgenza di
schiantarlo.
La fortuna storiografica conferma. Sino a quando era
fondata sull’encomio indiscriminato, l’identità di Michelangiolo
architetto non poteva essere colta. Quando fu rivalutata l’arte
barocca, Michelangiolo venne riletto in funzione dell’affrancamento
dai canoni del Cinquecento e della spettacolare licenziosità
seicentesca, ma anche questa interpretazione non riuscì persuasiva
dacché era chiaro che egli impersonava, all’un tempo, la profezia e la
resistenza al barocco. Michelangiolo rimase così in bilico tra
rinascenza e Seicento, spiazzato rispetto all’una e all’altra cultura.
Poi si aprì la grande stagione del manierismo, il recupero di una
civiltà che esautora il razionalismo classico dall’interno, o per
esasperazione intellettualistica, o per gusto raffinato e teso al
metafisico, o per un convulso rigurgito religioso. Si capì finalmente
l’apporto positivo della dissoluzione della struttura rinascimentale
dello spazio. Michelangiolo lasciò allora la paternità del barocco per
assumere quella del manierismo, e senza dubbio la critica che meglio
gli si avvicina ha forgiato i suoi strumenti d’indagine in questo
ambito. Ben presto tuttavia ci si è convinti che egli sfuggiva persino
alle categorie e al repertorio di questo linguaggio così ampio ed
eterogeneo. Michelangiolo non si difende dalle minacce del caos e non
le sublima, ma dichiara nel non-finito la sconfitta della forma
rispetto alla vita. Partecipa al riformismo cattolico di marca umanistica, al tentativo di
incidere le vecchie ideologie con istanze emancipatrici, ma deve
assistere all’orrenda ondata di intolleranza che segue la fine di
quella breve illusione. Ventidue anni prima della sua morte fu
istituita l’inquisizione e, l’anno appresso, la censura sulla stampa.
Nel 1559 vide Daniele da Volterra sfregiare i nudi del «Giudizio» in
omaggio a quel principio del «buon costume» che accompagna ogni
involuzione spirituale e civile, e che è stato giustamente definito un
portato di lascivia repressa. Superbo e debole, impulsivamente ardito ma in effetti codardo, straordinariamente attivo ma spesso fiacco e spossato, Michelangiolo
registra le antinomie della comunità in cui è immerso, da cui non può
liberarsi né vuole evadere. La biografia politica è oscura e sospetta,
come la fisionomia religiosa. Anche sotto il profilo espressivo
abbondano le contraddizioni: nei travolgenti schizzi per le
fortificazioni di Firenze matura un’articolazione volumetrica e
spaziale, una libertà dalle trame prospettiche e dagli schemi
ortogonali che lo situano di là dal barocco; fra i progetti per San
Giovanni dei Fiorentini troviamo ipotesi che potrebbero essere
attribuite a Borromini; nella tarda porta Pia sovverte l’intero
lessico cinquecentesco — eppure, nella maggior parte delle
realizzazioni, a questo lessico resta fedele benché contorcendolo — e
in San Pietro ritorna, anche se in una versione travisata, all’impianto bramantesco.
Il non-finito invera un assunto morale prima
che uno stato psicologico, poiché dice: in un’età come questa,
l’artista o si riallaccia ad un passato consumato e sconfitto, oppure
abdica in gratuite mitizzazioni: occorre invece l’animus di lasciare
interrogativi in sospeso là dove non vi sono valide risposte.
Michelangiolo come urbanista è ancora largamente da scoprire. Il
giovanile sogno paesaggistico di umanizzare un monte del carrarese
«che sopra la marina guardava», di cui parla Condivi, va collegato al
viaggio del 1529 a Ferrara, dove vide applicato il primo piano
regolatore moderno, antidottrinario ed aperto. Gli interventi romani
al Campidoglio, a palazzo Farnese, a San Pietro e
San Giovanni dei
Fiorentini, a porta Pia, Santa Maria Maggiore e Santa Maria degli
Angeli esprimono una concezione unitaria e globale per poli di
sviluppo, incentivi edilizi non-finiti. Si intercetta nel non-finito una componente irrazionale, che stimola
ed inquieta. Gli edifici michelangioleschi sono gremiti di episodi non
conclusi o alterati, dal baldacchino del palazzo Senatorio alla
finestra centrale dei Conservatori in Campidoglio e, soprattutto, alla
facciata di San Pietro. Rappresentano meri incidenti o invece una
fiducia nella poetica delle probabilità e dell’azzardo, vera replica
buonarrotiana alle norme del rinascimento, ai modi e alle mode del
manierismo, agli ipnotici procedimenti barocchi? Se la
sacrestia nuova di San Lorenzo del 1520-34 contrappone una
visione plasticamente drammatica a quella lineare e librata di
Brunelleschi che la precede esattamente di un secolo, il ricetto e la
sala della biblioteca Laurenziana, cui lavorò per uno straziato
trentennio a partire dal 1523, segnano il massimo raggiungimento del
ciclo fiorentino. Qui, in un pozzo vertiginoso trattato come una
piazza coperta, contratta e quasi strozzata, si scatena il furore
manierista, l’atteggiamento spietatamente eversivo rispetto agli
ideali classici di proporzione ed equilibrio.
I binati di colonne incombenti non riescono ad affrancarsi dal muro,
ne restano prigioni che succhiano lo spazio nei vuoti alveolati e lo
respingono. Le mensole sottostanti sono del tutto fuori scala, assurde
violenze sintattiche, avverse ad ogni logica tettonica. Dilaga,
«precipita verso il basso come una colata di lava», scrive C. De Tolnay, la cascata di gradini efferatamente plasmati.
Da questo
ambiente, che opprime ed angoscia per l’ambiguità torturante dei suoi
messaggi, si ascende al fine di penetrare, attraverso inauditi
incastri e compenetrazioni di portali, nella sala di lettura: «un
corridoio, un cortile lungo e stretto, tanto da sembrare una strada»,
dice Hauser. L’atmosfera si placa, saldando i ritmi strutturali a
quelli dei banchi e degli arredi. Poi il discorso viene bruscamente
troncato e resta non-finito; manca infatti il culmine del suo
andamento dinamico, la libreria triangolare dei testi rari che avrebbe
concluso rilanciandole le direttrici spaziali. I temi indagati nella Laurenziana esplodono a scala paesaggistica
negli schizzi per le fortificazioni. Come accennato, siamo al cospetto
del prodotto più spasmodico e sublime dell’ immaginazione
architettonica. Prefigurano, anzi soverchiano, la ricerca barocca,
smentendo un equivoco assai diffuso, cioè la supposta lenta
maturazione del maestro che, nato scultore, solo nel l’ultimo tratto
della vita sarebbe divenuto manipolatore di spazi costruiti. L’impeto
degli invasi, che frangono ogni elementarità geometrica e
stereometrica nella «durata» del loro autofarsi, nel turbine di
espansioni e contrazioni la cui dialettica genetica palpita anche dopo
essere stata codificata in un principio costruttivo, deriva dalla
Laurenziana e non ha riscontro nelle opere romane. Le abnormi sagome
delle strutture schiacciate dalla duplice pressione degli spazi
interni ed esterni, da una rabbiosa volontà di fusione e dialogo,
sono profilate, secondo un prodigioso calcolo intuitivo, dalla teoria
dell’elasticità. Ciò che è esplicito, anzi urlato, a Firenze, viene forzosamente
interiorizzato a Roma. Comincia nel 1538 la trasformazione della
piazza e dei palazzi capitolini. Il fulcro politico della città esalta
le sue tensioni centripete nella trattenuta cavità trapezoidale, ma le
apre verso l’abitato sottostante sfrecciando subito in direzione della
chiesa del Gesù. I successivi guasti riguardano: l’incongrua finestra
centrale dei Conservatori; la triplicazione dei pilastri sulle
testate; l’assenza del baldacchino in cima alla scala del Senatorio; e
il disegno della cordonata. A ben vedere, tutti dispositivi volti a
contenere o eliminare l’Anticlassicismo michelangiolesco. Al 1546 risale il completamento di palazzo Farnese nel cuore della
Roma papale. Il colossale cornicione fissa la dimensione della piazza,
il cui vuoto è misurato in modo che, per chi vi penetra, l’intero
quadro prospettico sia riempito dalla facciata. Altro gesto creativo:
un’incisione del 1560 documenta il progetto di sfondare le arcate dei
primi ordini del cortile per scavalcare via Giulia e il fiume,
recuperando al tessuto urbano un vasto quartiere popolare oltre
Tevere. Difendendo lo schema centrale per San Pietro, Michelangiolo compie una
scelta urbanistica: vuole un perno emergente ma non avulso
dall’agglomerato. Tanto che, nel 1559-60, prefigura San Giovanni dei
Fiorentini in modo assonante, sormontato da una cupola. Con due
fulcri, di qua e di là dal Tevere, San Pietro restava protagonista, ma
in un contesto panoramico. Com’è noto, seguirono atti rovinosi:
prolungando l’asse longitudinale, poi costruendo la piazza berniniana,
la basilica cessò di essere un perno e divenne un fondale a servizio
di quella unidirezionalità che approdò allo scempio della demolizione
dei Borghi.
Nel gennaio 1561 cominciano i lavori della strada Pia. Rettifilo che
parte dal Quirinale è compiuto nel giro di sei mesi; Michelangiolo
disegna lo stupefacente diaframma che lo separa dall’antica Nomentana.
A questo punto s’innesta l’ultimo gesto, Santa Maria de gli Angeli. Quando entra nel tepidarium delle terme di Diocleziano per ricavarne
una chiesa, Michelangiolo è lontano anche dalla temperie lesionata
della cappella Paolina, e immerso nell’evocazione di larve delle
ultime Pietà. I suoi segni sono quasi inafferrabili; domina non per
quanto opera, ma nel grado in cui si astiene. Il tepidarium è un masso
solenne di spazio che i crolli hanno dissuggellato al paesaggio; per
concretarne le virtualità espressive basta un soffio, un moto
embrionale. I ruderi sono già disposti a traslarsi in chiave
michelangiolesca, di Pietà Rondanini.
|