Viaggio a Roma
Donato Bramante
(1444 - 1514) La sua è un'architettura teatrale, fondata
su uno sviluppo proporzionale e addensato, organico, delle masse. Nel
1499, quando i francesi invadono Milano, si stabilisce a Roma dove
svilupperà parte dell'architettura più significativa, ma anche contestata,
del '500. L'intesa con Raffaello apre la strada ad una qualificazione
nuova dell'arte. Finora si era parlato infatti di arti distinguendo
pittura, scultura e architettura; ora nasce il concetto di arte perché si
dimostra che in realtà ognuna delle tecniche si dà, sempre e soltanto,
come forma sensibile, come "insieme di masse colorate, chiare e scure" (Argan).
Federico Zeri distingue nell'opera di Bramante due fasi corrispondenti ai
periodi milanese e romano. Il primo assolutamente innovativo, il
secondo pieno di retorica: architettura ridotta a pura rappresentazione.
Tempietto di San Pietro
in Montorio (1502) - Non essendoci problemi statici, date le ridotte dimensioni
dell'edificio, Bramante ha potuto sperimentare con libertà le soluzioni
architettoniche che adotterà poi, in più vasta scala, nelle opere
successive. La funzione dell'edificio era commemorativa, in quanto sorgeva
sul luogo dove si credeva fosse stato crocifisso san Pietro, ma doveva
anche essere simbolo della chiesa, di cui Pietro fu fondatore.
Bramante teorizzava, per dare uniformità urbanistica alla città, una
ricostruzione di Roma fondata su alcune tipologie di edifici antichi in
base alle teorie vitruviane ed agli studi archeologici. Nel tempietto il
modello di riferimento è appunto il tempio classico a pianta centrale
(vedi quello di Vesta) mentre nella metologia progettuale vengono attuate
le teorie della composizione modulare formulate da Vitruvio.
L'unità architettonica di base, la colonna, funge da modulo
per uno sviluppo armonico degli elementi e per il loro rapporto con lo
spazio circostante. Usa colonne doriche poggiate su di un plinto
ininterrotto, il tutto su tre gradini, tre "dischi" concentrici, così da
forzare la spinta verso l'alto culminante nella cupola che conclude
in verticale il corpo centrale, al di là della balaustra. E' chiaro che
la struttura dipende da un centro simbolico, che diventa dato
architettonico. Già Sebastiano Serlio aveva notato come le linee
costruttive del profondo strombo delle finestre confluissero al centro
dell'edificio. Il concetto di "centralità" doveva essere rafforzata,
tra l'altro, da un porticato anulare a colonne che, in un progetto
originario, avrebbe circondato l'intero edificio. |
Michelangelo
- Pietà, Basilica di San Pietro (1498) -
Sembra una visione. Il rimpianto. Supera i limiti del reale grazie ad una
finitura incredibilmente accurata. L'inclusione delle figure
nell'ipotetico blocco piramidale tende a ribadire forse che il concetto è
già nella materia informe, e che per palesarlo, bisogna soltanto liberarlo
dal superfluo. La scelta iconografica è di derivazione fiamminga e la
figura del Cristo, disteso sulle gambe di una Madonna insolitamente
giovane a ribadire la purezza del suo animo, influenzerà molti artisti
dell'epoca, tra i quali Raffaello (vedi la Deposizione).
Michelangelo - Tomba di Giulio II a San Pietro
in Vincoli (1542/45)
Il primo progetto della tomba risale a 40 anni prima. L'artista lo
aveva immaginato di dimensioni colossali ed avrebbe voluto sistemarlo
sotto alla grande cupola della basilica di San Pietro. La figura imperiosa
di Mosè nasconde ancora i suoi significati più profondi. Rappresentato
quando, sceso dalla montagna con le tavole della legge trova il suo popolo
in adorazione del vitello d'oro, non mostra affatto l'ira narrata nella
Bibbia. Non scaglia le tavole. E perché è rappresentato con le corna?...
(vedi la lettura di Freud e quella di James Hillman)
Raffaello - Deposizione
(1507), Galleria Borghese - Proveniente dalla chiesa di
San Francesco al Prato a Perugia). E' stata sviluppata come un trasporto.
La pittura è sempre più movimento, sempre meno sacra, sempre più storica.
La figura di Cristo deriva chiaramente dalla Pietà di Michelangelo e la
donna che sostiene la Madonna svenuta dal Tondo Doni. Il profilo dei monti
e le nuvole in cielo seguono l'andamento dei due gruppi di figure unite da
quella ideale “dell’arcangelo”, l’unica a cogliere un vento che non tocca
le altre figure. |
Vignola (1507 - 1573) Jacopo
Barozzi detto il Vignola, nato vicino Modena, è il più importante
architetto operante a Roma dopo la morte di Michelangelo, a cui sussegue
anche nei lavori di San Pietro. Autore della "Regola dei cinque ordini
d'architettura (1562)" dedotta dall'osservazione diretta dei monumenti
antichi e dalle teorie di Sebastiano Serlio.
Chiesa del Gesù
(1568) - La costruzione della chiesa fu affidata al Vignola dall'allora potente
ordine dei Gesuiti in periodo di piena Controriforma. Gli spazi ampi e
austeri (le decorazioni attuali sono barocche) erano il luogo ideale
per la predicazione, allo scopo l'architetto si preoccupa anche di
favorire una perfetta acustica. La pianta ha delle chiare attinenze con
quella della chiesa di Sant'Andrea di Mantova, dell'Alberti, essendo una
sintesi tra pianta longitudinale e centrale, col transetto
fortemente ridotto, praticamente incluso nel perimetro della
costruzione restituendo di fatto un'unica grande navata coperta con volta
a botte e cupola di crociera .
La chiesa diventa anche (Argan) allegoria del processo di
salvezza dell'umanità cristiana: spazio di mediazione tra la terra e
il cielo, con la sua ampia navata che nella parte terminale si allarga
ulteriormente congiungendosi col transetto e si proietta verso l'alto
nello spazio vuoto della cupola. Anche nelle pareti della navata
risulta la spinta verso l'alto ed è data, in questo caso, dalle
alte paraste che si agganciano alla volta ma modulano anche in senso
plastico la superficie. Le strutture portanti non sono più in vista come
nella struttura cinquecentesca (Argan) e questa nuova soluzione
diventerà il tema costruttivo dominante della architettura barocca. |
S. Maria dei Miracoli e
S. Maria in Montesanto (1662-79) - Carlo Rainaldi (1611 -
1691)
Carlo Rainaldi, figlio di un arch. minore, Girolamo (1570-1655),
acquistò indipendenza creativa soltanto dopo la morte del padre: sviluppò
una sua maniera grandiosa, tipicamente romana, notevole per le vivaci
qualità scenografiche e per la sintesi tra il manierismo e il Barocco
maturo dei suoi grandi contemporanei, particolarmente Bernini.
In S. Maria in Montesanto fu sostituito da Bernini nel 1673. |
Caravaggio (1571 - 1610)
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio fu
insieme con Annibale Carracci l'espressione più alta dell'arte de
seicento. A circa vent'anni si stabilì a Roma dove rimase fino a quando
dovette fuggire dopo aver ucciso un giovane in una rissa di gioco.
Perdonato dal Papa che si vide recapitare in dono il David e Golia
(la testa decapitata di Golia è un autoritratto dell'artista - Galleria
Borghese - vedi), morì durante il ritorno a Roma.
La sua pittura pone una problematica nuova. Fino a che punto la
realtà è verità? La tensione verso il reale non basta a raggiungere la
verità soprattutto se è condizionata dalla contemporanea ricerca del
bello. La verità è drammatica, è cruda nella sua evidenza dei fatti: la
ricerca della verità nell'arte presuppone una totale immersione nel
reale e non un distacco idealizzante. Rifugge così dai temi classici,
mitologici, poetici: vuole rappresentare il vero senza espedienti
allegorici confortanti o consolatori. Per farlo deve calarsi
personalmente nella cruda realtà e riviverne il dramma.
Nella "Crocifissione di San Pietro",
(cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo), dove il Santo si fa
crocifiggere a testa in giù per umiltà nei confronti di Cristo, sono
raffigurate quattro persone: la vittima, in attesa di compiere il
proprio martirio, che tiene la testa sollevata per seguire l’atto in
modo cosciente ed i tre aguzzini che , disposti secondo le
diagonali della tela, appaiono coordinati secondo una forma geometrica ad
X. Questi sono, rappresentati in uno sforzo intenso, lento e faticoso,
quasi fossero anch’essi condannati al proprio ruolo.
Nella "Conversione di San Paolo"
(cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo), Saul, accanito avversario del
Cristianesimo, mentre andava a Damasco per punire un gruppo di credenti,
si trova improvvisamente davanti il Cristo. Accecato dalla
luce divina si convertirà al Cristianesimo riacquistando la vista e
diffondendo la nuova fede cristiana con il nome di Paolo. In questo
quadro, la concentrazione sul dramma umano è ancora più chiara. L'artista non
rappresenta la scena nell’attimo in cui il miracolo avviene, ma nel
momento successivo, quando ormai tutto è compiuto ed è subentrato il
silenzio. I personaggi e gli elementi compositivi del quadro sono
ricchi di teatralità, componente molto presente nel ‘600, resa con
particolari scorci e posizioni che tendono ad accentuarne l'espressività.
David e Golia (1909-10), Galleria Borghese, -
Nel Maggio del 1606 Caravaggio, accusato di omicidio, fugge da Roma ed
erra in terre lontane (Napoli, Sicilia, Malta) per evitare la taglia che
stava sulla sua testa. Il suo autoritratto nella testa mozza di Golia,
afferrata da Davide giustiziere, nel 1610 fu inviato alla corte del papa,
quasi come una petizione dipinta per ottenere la grazia. Infatti la grazia
fu concessa, ma non raggiunse più in vita il pittore, morto sulla spiaggia
di Porto Ercole. Nell'immagine di Davide, Caravaggio rende omaggio
alle pennellate guizzanti dell'ultimo Tiziano e accompagna il volto del
giovane con una specie di alone luminoso che riverbera nelle fosche tinte
terree intorno alla figura. (www.galleriaborghese.it)
Giuditta e Oloferne (Palazzo Barberini,
Galleria Nazionale d'Arte Antica), è la prima tela altamente drammatica di
Caravaggio, in cui è stato individuato il significato allegorico-morale
della Virtù che vince il Male (Calvesi 1972). La ferocia della
scena è condensata nell'urlo sordo e disumano e nello spasmo del corpo di
Oloferne, rappresentato nel momento della decapitazione, con gli occhi
rovesciati all'indietro ma con una potenza fisica che sembra esplodere
dalla gola squarciata. Giuditta, dipinta in origine a seno nudo, ha il
volto corrucciato ma è calma e sicura nel gesto. La crudezza dei
particolari e la precisione realistica con cui è descritta la terribile
decapitazione, corretta fin nei minimi particolari dal punto di vista
anatomico e fisiologico, ha fatto ipotizzare che il dipinto sia stato
realizzato sotto l'impressione delle clamorose esecuzioni romane di fine
secolo di Giordano Bruno e soprattutto Beatrice Cenci (1599).
la Deposizione - (Pinacoteca Vaticana).
Caravaggio aveva l'incarico esplicito di esprimere nel dipinto la
compresenza del momento del dolore e della consolazione. Le figure formano
un gruppo compatto sul lastrone, dallo spigolo tagliente, che sembra
fuoriuscire dalla tela, che richiuderà il sepolcro di Cristo. Il suo
corpo esangue è sorretto da Giovanni Evangelista e Nicodemo. Dietro stanno
la Maddalena, l'anziana Madonna e Maria di Cleofa con le mani rivolte al
cielo ed il volto spossato dal dolore. La Madonna tiene le braccia aperte
fino a toccare i lati del dipinto, la destra ben evidente, la sinistra
quasi nell'ombra. Il braccio di Cristo pende sfiorando il bordo della
lastra con la mano che tiene in evidenza solo tre dita: la Deposizione
prelude già alla Resurrezione.
|
Francesco Borromini (1599
- 1667)
mappa
Borromini a differenza di Bernini, suo contemporaneo ed antagonista
(inizia alle sue dipendenze), è esclusivamente un architetto, ed è con le
armi della tecnica che cerca di opporsi al grande successo del rivale,
favorito da Alessandro VII. Per Bernini l'immaginazione di
Borromini è bizzarra, arbitraria e fantastica cioè inutile,
perché non è fondata sulla storia.
Alcune coincidenze legano la vita di Borromini a quella di
Caravaggio: ambedue lombardi, educati secondo i temi ascetici di
Borromeo, ambedue irascibili e tormentati, ambedue muoiono prematuramente:
Borromini già anziano si uccide in una crisi d'angoscia. La tensione verso
il reale del Caravaggio, era stata risolta dal Bernini: il reale era stato
sostituito dall’immaginazione fatta realtà attraverso l’uso della tecnica.
Borromini invece lavora nel tentativo di superare la realtà verso
l'immaginario. Tutta la sua arte è tensione, ansia, angoscia
creativa.
San Carlo alle Quattro
Fontane (1638 - 41) - La sua prima opera è il chiostro della chiesa (1634) dove è già
evidente la sua propensione a contrarre, anziché dilatare, lo spazio.
Della chiesa si è detto che la sua intera area è equivalente a quella di
uno dei pilastri che sostengono la cupola di San Pietro (infatti è
diventata subito per tutti "San Carlino", nome che evoca anche il taglio
minimo della moneta del tempo). D'altronde l'ordine dei trinitari
scalzi che l'ha commissionata non è ricco e non può distrarre i fondi
dall'attività a cui si dedicava cioè il riscatto dei cristiani caduti in
mano turca. I problemi da affrontare sono molti. Il quadrivio alle
Quattro Fontane non è ortogonale ma determina un'area trapezoidale, e una
delle fontane crea un angolo fortemente smussato. I fronte sulla strada è
limitato e bisogna ricavarne la facciata di una chiesa e quella di un
convento. L'architetto che già aveva prestato il suo servizio senza
compenso non si scoraggia, anzi inizia e porta avanti i lavori con
straordinaria capacità ed efficienza.
La pianta della chiesa si sviluppa intorno a un vano centrale ovato con
absidi poco profonde e un complesso gioco di curve. All'interno usa una soluzione palladiana, un ordine unico di
colonne, enormi, visto lo spazio ellittico sviluppato in larghezza (soluzione
che attuerà Bernini in Sant'Andrea). La struttura sembra così
protendere verso l'alto dove gli archi sembrano quasi deformare la
cupola ovale con la loro spinta. Nel 1641 i lavori sono conclusi ad
esclusione della facciata. Questa sarà l'ultima opera del Borromini, contemporanea al colonnato di San Pietro.
La facciata è
concepita come un oggetto, è discontinua, antimonumentale. Si
stacca dal corpo della chiesa, all'opposto di quello che Bernini avrebbe
fatto - poco più avanti - in Sant'Andrea. Tutto l'insieme plastico fatto
di curve che sporgono o si incavano sembra avere l'unica funzione
di portare in alto l'enorme medaglione con l'immagine che conclude in
maniera assolutamente originale l'architettura. Il rapporto di questa con
lo spazio urbanistico sembra risolversi nell'"esistere" come atto della
straordinaria capacità creativa dell'uomo. |
Gianlorenzo Bernini
- (1598 - 1680) - Soprattutto architetto e scultore, ma
anche pittore, scenografo, autore teatrale, è stato il genio,
riconosciuto, dell'arte del seicento. In Bernini il compito dell'artista è
quello di sviluppare una tecnica eccezionale, che gli consenta di
trasformare in realtà concreta il pensiero creativo dell'uomo, che è
vitale; mentre il reale, come dimostrava Caravaggio, presenta spesso un
alone di mistero e di morte.
Per fare ciò l'artista deve stabilire un rapporto con la realtà
sociale e politica in cui vive e deve averne il suo appoggio: a Roma
l'unione di Stato e Chiesa ha rappresentato l'ambiente ideale per lo
sviluppo dell'arte del Bernini, ciò che non si è verificato invece nel
suo breve soggiorno a Parigi, quando fu chiamato da Luigi XIV.
In scultura, nel dimostrare che la tecnica può concretizzare
l'immaginazione, realizza opere perfette. In questo modo invece che
esaltare la natura finisce per distruggerne il significato (Argan),
dimostrando che non c'è nulla che l'uomo non possa rifare. Appare chiaro
che, con una simile impostazione, il suo interesse è per la realtà
sensibile, non per quella ideale.
A differenza del suo ombroso contemporaneo e rivale Borromini, era
persona equilibrata e di temperamento estroverso, cortese nel tratto e
sicuro di sé; pure, era devoto e profondamente religioso; fervido adepto
dell’insegnamento dei Gesuiti, praticava regolarmente gli «esercizi
spirituali» di Sant’Ignazio. In lui si concertavano in grado eccezionale
la genialità artistica rivoluzionaria e la capacità organizzativa
dell’uomo d’affari (Einaudi).
Tra i suoi primi incarichi vi fu il ciborio
nella basilica di San Pietro (1624-33) da lui eretto sotto la cupola
michelangiolesca all’incrocio della basilica. La scelta del ciborio
risulta da valutazioni pratiche: un elemento chiuso, un sacello, avrebbe
interrotto la visione prospettica, mentre uno di piccole dimensioni
avrebbe snaturato il senso maestoso della cupola. L'artista inventa così
un colpo si scena teatrale, una struttura imponente, un baldacchino con
quattro poderose colonne elicoidali in bronzo e oro che, avvitandosi, si
spingono in alto nello spazio, verso la cupola.
Con le gigantesche colonne tortili in bronzo, le volute vivaci e
ariose, le dinamiche sculture, questo risonante capolavoro costituisce in
realtà il simbolo stesso dell’epoca: della sua grandiosità, della sua
opulenza, della sua "incontinenza formale". Esso celebra, sublimando
il tema delle colonne tortili già impiegate nella precedente basilica
costantiniana di San Pietro e provenienti, secondo la tradizione, dal
tempio di Gerusalemme, la continuità della Chiesa e il suo trionfo sulla
Riforma (Einaudi).
Suoi sono anche il palazzo di Montecitorio
(1650-55) e quello Chigi ora Odescalchi in piazza Santi Apostoli
(1664-67), il secondo è di gran lunga il più importante. Segna una svolta
decisiva che rompe con la tradizione romana. Il progetto consisteva di una
parte centrale a tre piani, di cui i due superiori articolati in sette
campate, con pilastri giganti compositi; le due ali arretrate presentavano
tre campate in semplice stile rustico. L’opera, in. dal Maderno (cortile)
e compl. con C. Fontana, ebbe grandissima influenza, e divenne il modello
dei palazzi signorili di tutta Europa; la composizione è stata purtroppo
rovinata da successive alter. e ampl. (n. salvi, 1745, con la coll. del
Vanvitelli).
Il dono di B. per la monumentalità e la colossalità trovò espressione
suprema in piazza San Pietro (1656-67). La
concezione è estremamente semplice ed estremamente originale: un
immenso ovale definito da colonnati su colonne libere, sormontate da una
trabeazione. Ciò non soltanto contribuí a correggere i difetti della
facciata del Maderno, conferendole un effetto di maggiore altezza, ma
espresse con imponente autorità e persuasione la dignità, la grandiosità e
la serenità maestosa della Madre Chiesa. B. stesso paragonò il colonnato
alle braccia materne della Chiesa che accolgono i cattolici per rafforzare
la fede. La piazza avrebbe dovuto venir completata da un «terzo braccio»,
purtroppo mai realizzato; anzi l’effetto cui B. mirava, di sorpresa ed
esaltazione al valico dei colonnati, è stato ora distrutto dall’apertura
di via della Conciliazione (1937).
L’ultima grande opera berniniana è la Scala Regia
in Vaticano (1663-66). Trasforma uno spazio angusto in una
rappresentazione simbolica, fortemente teatrale, del cammino dell'uomo
verso Dio. Si serve di una tecnica collaudata per dare una maggiore
profondità prospettica (riduzione progressiva delle dimensioni) a cui fa
corrispondere un graduale aumento della fonte luminosa.
Sant'Andrea al Quirinale - (1658 -
1661) - E' una piccola chiesa voluta dai Gesuiti. A pianta centrale
ellittica con l'asse maggiore nel senso della larghezza. Vengono elusi
tutti i canoni proporzionali. La facciata esterna è un corpo rigido,
segnato da rigidi pilastri corinzi che sorreggono un timpano triangolare,
da cui fuoriescono, dilatandosi progressivamente nello spazio, la
copertura semicircolare del pronao e della gradinata; il tutto collegato
da una parete bassa ellittica al piano stradale. All'interno viene quasi
ricreata una seconda facciata con una enorme struttura, che ingloba
l'altare, formata da due coppie di colonne che sostengono una trabeazione
(nient'altro che una sporgenza del cornicione) e un timpano curvo
interrotto da una statua.
David (1623-24), Galleria Borghese -
L'artista ha sospeso il gruppo di Apollo e Dafne per eseguire questa
scultura. David è visto con occhi diversi rispetto agli autori
cinquecenteschi che lo rappresentavano come l'uomo-eroe che contando sulla
propria forza e sulla propria intelligenza poteva sconfiggere le forze a
lui ostili. Bernini lo coglie come in una istantanea, nell'attimo di
massima concentrazione, quando intento a caricare la fionda e prendere la
mira, contemporaneamente si coordina nella torsione che precede il lancio.
Anche Apollo e Dafne (1622-25), Galleria
Borghese, sono il "fotogramma" di una scena in movimento, il momento in
cui Dafne sta per essere bloccata dal dio e per sfuggirgli si trasforma in
un albero di alloro. La composizione mostra un andamento per linee
parallele oblique che dal basso verso l'alto si concludono nella mano di
Dafne già trasformata in ramo. La metamorfosi improvvisa suscita quel
senso di meraviglia nello spettatore che è un obiettivo tipico dell'arte
barocca.
|
Antonio Canova
(1757 - 1822), Paolina Borghese -
(1805-1808), Galleria Borghese. Il ritratto marmoreo di Paolina che
posa in levigatissime forme, viene considerato un apice dello stile
neoclassico. Il pomo che Paolina Borghese regge con gesto artificioso
evoca la "Venere Vincitrice" del giudizio di Paride che avrebbe potuto
scegliere tra Giunone (potere), Minerva (arti e scienza) e Venere (amore).
Antonio Canova creò tra il 1805 e il 1808 questo ritratto senza veli di
una persona di rango, fatto eccezionale per l'epoca, realizzando così
la metamorfosi della persona storica in divinità antica in un
atteggiamento di classica quiete e nobile semplicità.
Il supporto ligneo, drappeggiato come un catafalco, ospita all'interno un
meccanismo che fa ruotare la scultura come in altre opere del Canova. Si
inverte così il ruolo tra opera e fruitore: è la scultura ad essere in
movimento, mentre l'osservatore fermo viene impressionato dalle
immagini sfuggenti di una scultura splendida da tutti i lati. Nottetempo,
al lume di candele, gli osservatori ammiravano la scultura di Paolina nel
suo tenero scintillìo, e il suo lustro non derivava soltanto dalla finezza
del marmo, ma anche dalla patinatura con cere, ben conservate nel recente
restauro. (http://www.galleriaborghese.it) |
Valadier (1762 - 1839)
Giuseppe Valadier, archeologo, urbanista e arch. prolifico, si professa
allievo di Vitruvio e Palladio ma è soprattutto un architetto pratico. Le
sue opere principali sono neopalladiane più che neoclassiche (vedi
ad es. ...la facciata di San Rocco a Roma (1833))
Piazza del Popolo (1822) -
Nel suo capolavoro, la risistemazione di piazza del Popolo a Roma, per la
quale aveva pubblicato un progetto fin dal 1794, seguito da un secondo nel
1813 e da quello definitivo nel 1815, si preoccupa, più che di trovare
effetti scenografici, di collegare mediante una balaustra di una
eleganza discreta, l'elemento paesaggistico con quello architettonico. |
|