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Realismo
1850 |
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(EE) - Termine tanto capitale quanto ambiguo del linguaggio della critica d’arte contemporanea («particolarmente sfortunato », come osserva R. Jakobson, per la sua polisemia disordinatamente utilizzata), r ha nell’uso due principali accezioni: una piú ampia e generale, impiegata per fenomeni artistici anche molto distanti tra loro ogni volta che si voglia sottolinearne impostazione o tratti di particolare evidenza ed efficacia nella resa del vero; e una che fa specifico riferimento alla genealogia di artisti o di opere in cui si riconobbe il movimento che intorno alla metà dell’Ottocento prese questo nome come bandiera. Movimento che ebbe poi seguito, sia pure con significative eclissi e scarti di percorso, fino a dare i frutti forse piú sorprendentemente consoni ai suoi inizi in un’arte diversa dalla pittura, ma che dalle richieste lungamente poste alla pittura ebbe impulso di progetto; tanto è vero che per gli artisti con cui si apre questa linea storica il discorso sulle arti figurative si annetterà felicemente strumenti lessicali della critica cinematografica: per meglio spiegare «quei contrasti istantanei di misura, sbalzi tra “primi piani” e «campo lungo», che solo il Caravaggio seppe escogitare, a quei tempi, «con uno spicco di verità che piú tardi, per esprimersi, bisognò di macchine speciali» (R. Longhi, 1952). Nella mappa instabile dell’uso critico, sia nell’ambito letterario che in quello figurativo, i vocaboli realista e r si alternano e si intrecciano, tra accettata sinonimia e tentativi di esplicita contrapposizione, con la piú lunga fortuna di naturalista e naturalismo; e hanno conosciuto, nel Novecento, un destino vivacemente contraddittorio, connesso con il doppio significato dell’aggettivo «reale» sia nel linguaggio filosofico che in quello comune, e certamente condizionato sia dal prestigio (in positivo e in negativo) della forte connotazione sociale del movimento courbettiano, che dalla intellettualistica attrazione che apparentemente, piú o meno dal «ritorno allo stile» del 1890 al «ritorno all’ordine» dell’entre-deuxguerres, procede dal suo vecchio significato (sinonimo di idealismo) nella filosofia medievale, e fors’anche, piú marginalmente, dai nuovi referenti scientifici nel campo della fisica moderna. Rientra dunque nel registro piú generale d’uso il libero ricorso al termine r quando prevale, in un’opera, la fedeltà alla realtà nella sua immediatezza: in un ventaglio di riferimenti che spaziano dalle grotte di Lascaux alla ritrattistica romana e perfino a Picasso, magari con le ne-cessarie aggettivazioni, com’è il caso appunto del «r espressionistico» nell’opera picassiana (E. H. Gombrich, 1950). Molteplici sono infatti le accezioni chiamate in causa, sfumature di significato che oscillano tra cifra essenziale che traduce o evoca l’urto di una verità non esclusivamente visuale, e l’esito di convenzioni elaborate dalle tradizioni di piú attenta e analitica fedeltà al modello naturale, spinta talvolta fino a una ossessione descrittoria che nulla ha da spartire con la naturalistica «certezza di visione», ma la può addirittura ribaltare nel suo contrario. Non è infatti infrequente un certo grado di confusione con nozioni e termini critici di lunga storia come «illusione» e «illusionismo», «inganno» (ricorrente come topos laudativo in tutta la tradizione storiografica), e perfino trompe-d’oeil, che esprime la precisa volontà di oltrepassare i confini della pittura. Come valido sinonimo di naturalismo, r comincia già nell’Ottocento ad essere impiegato, a lungo sentito come neologismo, per i caratteri innovativi della pittura giottesca («Giotto – testimonia C. Boito nel 1877 – fu lodato per pittore idealista da molti, e da molti per pittore realista»), e per il primo rinascimento: «Masaccio umanizza, rende di forma meno mistica tutti i suoi concetti – scrive D. Martelli nel 1892 – e progredisce per la via che oggi si direbbe del r». Ma quando oggi si parla di r, sempre come sinonimo di naturalismo, con riferimento a Caravaggio e via via per l’opera di Velázquez, dei Le Nain, Rembrandt, Vermeer, Chardin, Corot, Manet o Degas, ci si trova invece a buon diritto altrettanto che per Courbet entro il campo della seconda e piú specifica accezione del termine. È infatti con la «terribile naturalezza» del Caravaggio che prende a manifestarsi pienamente anche nelle arti figurative quella coscienza moderna che nasce, sullo scadere del Cinquecento, dallo scetticismo e dal pessimismo post-rinascimentali; i cui principali approdi sono la rivendicazione della dignità del mondo dei fenomeni come unica verità attingibile con pienezza dall’uomo (che trae certezza morale dai legami di reciprocità universale), l’attitudine critica verso codici culturali dominanti che l’abitudine abbia privato della capacità di significare, e, capitalissimo, il risoluto rifiuto del principio di autorità, fosse pure quello dell’antichità classica, a vantaggio dell’esperienza diretta (da cui nasce quel rapporto privilegiato con l’attualità destinato a costituirsi piú tardi, per l’artista, in imperativo di «essere del proprio tempo»). «La vita di Cesare – scriveva Montaigne in quello scorcio del glorioso sec. xvi – non è per noi di maggior esempio della nostra; sia di un imperatore sia di un uomo del popolo, è sempre una vita soggetta a tutti gli inconvenienti umani... In realtà, se diciamo che ci manca l’autorità per dar fede alla nostra testimonianza, parliamo a sproposito. Perché, a parer mio, dalle cose piú ordinarie e piú comuni e conosciute, se sapessimo vederle nella loro vera luce, si possono dedurre i piú grandi prodigi di natura e gli esempi piú meravigliosi». Non diversamente risuona sulla bocca di Caravaggio il ricorrente topos storiografico della natura «unica maestra», con cui il Bellori coglieva, a proposito del quadro La zingara che dice la buona ventura, la novità del rapporto instaurato col soggetto: vera istituzione, come è stato scritto, dell’antisoggetto, della tranche de vie in senso moderno, e motore, nei confronti degli ineludibili temi sacri, del suo modo di provarsi «a ritrovarne il fondo di eterna comprensibilità umana» (R. Longhi, 1951). Vivo per tutto il Seicento e il Settecento soprattutto nella confluenza tra eredità caravaggesca e naturalismo nordico e olandese, questo stesso sentimento del primato del mondo dei fenomeni e dell’esperienza diretta, e della dignità della rappresentazione del quotidiano e del privato, prende colore di sfida aperta nel primo titolo dato da Courbet al Funerale ad Ornans (1849): Tableau de figures humaines, historique d’un enterrement à Ornans, esposto al Salon del 1850, quando ancora la pittura di storia era all’apice della gerarchia dei generi artistici; si afferma con altro linguaggio nella tranche de vie impressionista; e riaffiora anche nel corso del Novecento (per esempio in pittori come l’americano E. Hopper o l’italiano A. Ziveri) ma soprattutto, con prepotente vitalità, nella stagione neorealista del cinema. Che si tratti però di Caravaggio, di Courbet o di Rossellini, la risposta critica a questa linea storica presenta anch’essa caratteri di sorprendente continuità, soprattutto nella convergenza che associa, spesso da sponde opposte, due principali classi di obiezioni. La prima in nome dello stile (dell’«artifizio ») e sul filo dunque dell’equivoca opposizione tra copiare e interpretare: dal Boschini che nel Seicento attaccava, a difesa della grande pittura veneziana, i «naturalisti » perché «i no è Pitori, i xe copisti» (La carta del navegar pitoresco, 1660) a Delacroix che definiva il r «l’opposto dell’arte», non potendosi concepire «che lo spirito non guidi la mano dell’artista» (Diario, 1857). La seconda obiezione, ricorrente con molta frequenza e con molta varietà di bersagli nella storiografia artistica, sembra particolarmente eccitata dalle opere dei «pittori della realtà»: è l’accusa di trivialità, comminata dapprima in ordine alle categorie del «decoro» e della «convenienza» e come indebita deroga ai precetti sulla «verosimiglianza» (Bellori, Baldinucci ecc.), e piú tardi con argomenti piú diversificati ma sostanzialmente simili nel corso dell’Ottocento dai critici benpensanti, direttori dell’opinione e orchestratori delle campagne contro Courbet (o dello scandalo per l’Olimpia di Manet). E si potrebbero portare numerosi esempi anche dalla cronaca e dalla critica cinematografi- che avverse al neorealismo. Se la richiesta di «verità» posta all’arte era andata crescendo per tutto il Settecento nei due principali versanti della verità «scientifica » (come per l’Algarotti) e verità «morale» (Diderot), se il r è preparato, negli anni tra il 1830 e il 1840, anche dalla collusione, specie nella pittura di paesaggio e con l’apporto rilevante del paesaggio inglese, tra gli sviluppi delle correnti naturalistiche del Settecento e le istanze disordinatamente anticlassicistiche del romanticismo, è nel crogiolo dell’età romantica, negli anni che vanno dalla Monarchia di Luglio alla rivoluzione del 1848 e in quelli immediatamente successivi, che l’uso critico del termine (già in corso in ambito letterario nel secondo decennio, particolarmente per Balzac) viene esteso anche al campo delle arti figurative. E non solo si afferma nel parlato delle conversazioni e discussioni tra artisti, letterati e critici (ricordiamo che tra i nomi dei frequentatori, in quegli anni, della birreria Andler, considerata il cenacolo del r, figurano insieme Corot, Daumier, Courbet, Decamps, Barye, Bonvin, Baudelaire, Champfleury, Duranty, Silvestre, Vallès, Planche, Proudhon), ma approda infine nelle pagine delle recensioni al grande appuntamento- spettacolo periodico del salon. L’influente critico della «Cronique de Paris» e della «Revue des Deux Mondes » Gustave Planche (che nel 1836 è probabilmente il primo a usare il termine r nell’ambito specifico della critica d’arte) se ne serve dapprima in funzione a un tempo antiromantica e antiaccademica (sembrandogli che la nozione di r potesse servire alla «rigenerazione dell’arte», per una innovazione che non cadesse nella «bizzarria») e poi in accezione via via piú riduttiva per definire una qualità di «verità» per cosí dire inferiore, diversa dalla verità ideale e corretta che finirà col proporre, in opposizione al r, al pubblico borghese del secondo Impero. Nel disomogeneo panorama degli scritti a difesa, i campi semantici coinvolti associano invece la sincerità e l’obiettività alla semplicità ed essenzialità, e l’intensità e forza con l’attenzione al quotidiano e al privato (sono per gli artisti gli anni dei viaggi in Olanda, e per i critici una stagione di riscoperte, nella grande arte olandese, anche di nomi fino allora trascurati, come Ver-meer), con una terminologia corrente soprattutto per il paesaggio, il ritratto e le «scene di genere», ma che ora viene riferita anche a una pittura che rifiuta esplicitamente il sistema gerarchizzato dei generi artistici. È vero che l’abolizione di questo sistema di classificazione era stato già affacciato come proposta, in via teorica, nel Settecento, da A. J. Desallien D’Argenville: senza riserve, ma anche senza pratici risultati, cosí che la rigida separazione dei «generi » (anche fisicamente nelle sale delle Esposizioni) aveva continuato a funzionare come un dispositivo pratico sotto la cui ambigua copertura era potuto crescere, per artisti e collezionisti, il gusto del naturalismo. L’acme dell’ostilità fu infatti quasi sempre innescata non tanto dalla istanza di essere del proprio tempo (contrassegno autointerpretativo di larga parte della pittura moderna), quanto dall’esplicito attentato al sistema codificato dei generi, specchio di una concezione gerarchizzata dell’universo e della società. Tanto piú che la decisa innovazione nei mezzi pittorici attentava anche a un’altra venerata autorità: quella dell’eclettica ed esangue tradizione insegnata dall’Académie des beaux-arts. È ciò che accade piú palesemente nel 1855, quando Courbet, che ha già al suo attivo, come scrive Baudelaire, «un esordio sorprendente... che ha preso il gesto di un’insurrezione», apre, accanto al Palais des arts che ospita la grandiosa Esposizione Universale d’arte (con le due capitali retrospettive di Ingres e di Delacroix che monopolizzano la critica, e la folla di opere accademiche, eclettiche e aneddotiche su cui si riversa il favore del pubblico), il suo Pavillon du Réalisme, dove espone una quarantina di quadri, compresi quelli che erano stati rifiutati dall’esposizione ufficiale. Vi figuravano opere già note e «scandalose» come il Funerale a Or-nans e gli Spaccapietre, ma il polo dell’attenzione era indubbiamente costituito da Lo studio del pittore: allegoria reale determinante una fase di sette anni della mia vita artistica (1855), opera-manifesto, popolata dai ritratti degli amici e dalla folla «della vita triviale, il popolo, la miseria, la povertà, la ricchezza, gli sfruttati e gli sfruttatori» (Champfleury, 1855); un’opera destinata a far scandalo anche per l’ossimoro del titolo, tanto da suscitar riserve nello stesso Champfleury («Courbet ha voluto tentare una sortita dal campo della realtà pura: allegoria reale, dice nel suo catalogo. Ecco due parole che litigano tra loro e mi turbano un poco... Una allegoria non può essere reale piú di quanto una realtà non può diventare allegorica: la confusione è già abbastanza grande a proposito di questa famigerata parola realismo senza che sia necessario aumentarla ancora...»). Ma Lo studio del pittore fece tanta impressione a Delacroix da fargli confessare a denti stretti: «... scopro un capolavoro nel suo quadro scartato; non riuscivo a staccarmene... Hanno scartato una delle opere piú singolari del nostro tempo; ma quello lí non è tipo da scoraggiarsi per cosí poco...» (Diario, 3 agosto 1855); che era, da quella fonte, un non piccolo riconoscimento. Il critico Castagnary, da parte sua, definiva una rivoluzione artistica» il fatto che Courbet dipingesse i suoi contemporanei, borghesi o contadini, «con il vigore e il carattere riservati agli dèi e agli eroi». È vero che già nel Settecento Diderot aveva avanzato la proposta di riservare l’appellativo di «pittori di genere» agli «imitatori della natura bruta e morta» e di estendere il titolo di «pittori di storia» agli «imitatori della natura sensibile e viva» anche nelle scene di vita comune e domestica, ma il suo discorso mirava particolarmente a promuovere le magniloquenti e patetiche scene «morali» di Greuze. E se si pensa che nel 1836 L. Grosclaude aveva esposto senza scandalo al salon un’opera insolita (Brindisi alla vendemmia del 1835) di cui è stato sottolineato l’indubbio ruolo per gli esordi del movimento realista e che ritraeva un evento privato con personaggi a grandezza naturale ma era ancora riconducibile mentalmente a una scena di genere ispirata ai ritratti di gruppo olandesi del sec. xvii, è chiaro che ciò che rendeva decisamente offensiva la pittura di Courbet era precisamente l’associazione di una fattura risolutamente innovatrice con l’esplicita invasione del territorio riservato alla pittura di storia. «I quadri storici di Courbet, che saranno un avvenimento al salon – scriveva l’altro critico e letterato fiancheggiatore e portavoce del r Champfleury nel 1850, prima che il Funerale a Ornans fosse esposto a Parigi – solleveranno importanti discussioni. I critici possono da ora prepararsi a combattere pro o contro il r». Il contraddittorio destino del termine r, associato in questa battaglia ai nomi, oltre che di Courbet, di Francois Bonvin, Alexandre Decamps, Théodule Ribot, François Millet, ma anche di Daumier, Corot, Jongkind, e a gran parte dei paesaggisti della «scuola di Barbizon», si gioca nel decennio 1850-60, con il concorso di molteplici fattori. Alla pubblicazione di alcuni dei principali scritti dei letterati di parte realista (Le Réalisme di Champfleury nel 1857, i Salons di Castagnary che collabora anche alla stesura della famosa Lettera agli allievi pubblicata da Courbet nel 1861, la rivista «Le Réalisme», cinque numeri tra il 1856 e il 1857, del giovane Duranty, prossimo estimatore degli impressionisti, gli interventi critici di Th. Thoré dal suo esilio olandese, i Recueils des dissertations sur le Réalisme del poeta Max Buchón nel 1856, ecc.), si aggiunge anche la pressione di fatti sostanzialmente extraestetici come la diffusione del positivismo di A. Comte (che nel 1844 aveva definito «il positivo» in termini di contrapposizione tra reale, utile, preciso contro chimerico, ozioso, vago), e il successo di uno pseudo-r contrassegnato da temi sociali trattati con fattura edulcorata e intenti aneddotici e obbediente il piú spesso ai dettami di critici come Planche sul dogma del «finito». Sembra comunque dominante, nella critica sia favorevole che contraria, la preoccupazione di difendere l’arte, nel suo culto della realtà, dallo spettro della «copia meccanica»: cosa che non aveva invece preoccupato, nel Settecento, i teorici di un’arte votata, in gara con la scienza, alla investigazione esatta della natura (Algarotti). Nel 1839, d’altronde, l’invenzione della fotografia aveva esonerato di fatto (anche se non, per insufficienza tecnologica, nella pratica immediata) la pittura dai compiti e dalle ambizioni «scientifiche» e documentarie. Ma, nemici o difensori del realismo, i critici sembrano concordi non tanto nel cercar di situare il ruolo e il carattere della fotografia nei confronti delle nuove prospettive dell’immagine, quanto nel ricorso quasi ritua-listico al nuovo topos dell’opposizione tra fotografia e arte, nel senso in cui già Cattaneo, scrivendo di teatro nel 1842, affermava che «la poesia non può farsi l’ossequioso e minuto dagherrotipo dell’istoria» (non giudicando diversamente da Apollinaire, che nel 1913, in piena eclisse del r, scriverà che «solo i fotografi fabbricano la riproduzione della natura»). C. Boito (che cercava anche di spiegare come la fotografia non avesse capacità di rendere né il valore dei toni né il chiaroscuro) scriveva nel 1877: «Copiare non è dato che al sole, con la fotografia: bisogna dire interpretare»; e per Diego Martelli le composizioni di Decamps dimostravano come «il r moderno non sia per nulla la fotografia della natura ma piuttosto il culto della natura e del vero». Nella selva delle trattazioni teoriche ciò significa il piú spesso la difficoltà a superare lo scoglio della obbiettività (che del r era una delle principali istanze), aggirata ma non risolta con il ricorso a un soggettivismo di marca ancora romantica («la natura vista attraverso un temperamento» di Zola), quando non al ritorno puro e semplice all’ideale, sia pure messo al servizio dell’utilità sociale dell’arte (come nelle tesi di Proudhon): con il risultato di un notevole contributo alla confusione imminente. Non erano invece ambigui, per chi sapeva vederla, i segnali della pittura. Baudelaire, che aveva già indicato in Daumier «uno degli uomini piú importanti non soltanto, si badi, della caricatura, ma anche dell’arte moderna» (nel Massacro della Rue Transnonain «il disegno... non è in senso proprio caricatura, è storia, volgare e terribile storia»), scrive nel 1862 che «bisogna riconoscere a Courbet il merito di aver contribuito non poco a restaurare il gusto della semplicità e della schiettezza, l’amore disinteressato, assoluto, della pittura», e non manca di salutare in Manet, nel suo «sapore spagnolo intensissimo, da far pensare che il genio spagnolo abbia trovato asilo in Francia», «un gusto risoluto del reale, il reale moderno». Quel gusto che, come ricorda J.-E. Bianche, varrà piú tardi a Degas, per il quale «non c’erano «soggetti» tanto volgari da esser giudicati indegni d’esser dipinti», l’esser considerato «uno tra i capi dei realisti: «r», come locuzione corrente, evocando allora l’idea di soggetti triviali». Già nell’Ottocento, comunque, r resta un termine, per i detrattori come per i protagonisti del movimento, relativamente contestabile, da usare con qualche riserva, di cui si avverte, insomma, la potenziale ambiguità. Per citare due testimonianze decisamente eterogenee (provenienti l’una dal cuore stesso del movimento e l’altra dalla periferia, anzi dal confine con l’uso comune: se Courbet afferma «Il titolo di realista mi è stato imposto, come agli uomini del 1830 è stato imposto quello di romantici; in ogni tempo i titoli non hanno dato un’idea giusta delle cose; altrimenti le opere sarebbero superflue», il Tommaseo introduce una riserva nella sua attardata definizione: «dottrina e pratica nel considerare e trattare i soggetti delle arti belle, contrapposto all’idealismo; in quanto i realisti, non cosí bene intitolati, vogliono rappresentare le cose secondo le materiali apparenze della esteriore realtà, senza esprimerne cogli strumenti dell’arte lo spirito intimo, e affinare e nobilitare cosí il proprio e l’altrui spirito» (Tommaseo-Bellini, Dizionario della lingua italiana, 1856-79). La crescita, anche fuori di Francia, nella letteratura come nelle arti figurative, delle correnti di tendenza realista, registra varianti di modi e talvolta anche di nomi (è il caso, in Italia, della forte connotazione sociale del verismo), ma avviene principalmente sotto il segno della diffusione di un realismo di compromesso che abbastanza spesso implica la coesistenza di differenti sistemi formali in una stessa opera. Basta ricordare come nel 1874 – lo stesso anno dell’esposizione del gruppo impressionista da Nadar – al Museo Nazionale del Palais du Luxembourg (dove dal 1818 erano esposte, ad edificazione del pubblico parigino e dei visitatori stranieri, opere di artisti viventi acquistate o commissionate dallo Stato) il movimento realista era rappresentato da Daubigny e da Bodmer – Courbet era ancora al bando – ma erano considerate realiste molte delle opere di maggior successo di artisti come Fromentin, Jules Bréton, Rose Bonheur ecc., ed erano queste le varianti che piú impressionavano il gusto dei visitatori. A questa piú generica tendenza, a questo «r» diversamente declinato, nella seconda metà del secolo, e piú fittamente nei decenni tra il 1860 e il 1890, si richiamano o vengono comunque genericamente riferiti raggruppamenti o singoli artisti che a vario titolo (con caratteri di maggiore o minore attenzione al movimento courbettiano – un caso a parte è quello dei realisti belgi, come Constantin Meunier, od olandesi, piú direttamente legati alla Francia –, ma sempre in piú o meno stretta correlazione con gli sviluppi dei contemporanei movimenti realisti in letteratura, e con varianti formali e tematiche fortemente condizionate dalle rispettive estrazioni nazionali o regionali anche teoricamente rivendicate) si collocano sotto il segno di un comune consenso a privilegiare la fedeltà al «vero» comunque inteso o motivato. È cosí che si giustifica, nell’uso, la grande fortuna del termine r e l’estensione dell’appellativo di «realisti», in alternativa a «naturalisti» o «veristi», per raggruppamenti distanti tra loro come la «scuola di Piagentina» (con i paesaggi e gli interni dei Lega, Cecioni, D’Ancona, Borrani ecc.) e il gruppo russo dei Viandanti (contrassegnato dagli interessi storico-psicologici, in gara con la grande letteratura contemporanea, di artisti come Maximov, Repin, Kramskoj); e, per fare solo qualche esempio, per nomi come quelli dell’americano Thomas Eakins (affascinato dalla pittura spagnola del Seicento) e del tedesco Max Liebermann (la cui adesione al r è preludio all’interesse per le ulteriori, incalzanti novità dell’impressionismo). E sempre di r si parla per una rosa di opzioni e un arco di generazioni, che in Italia (dove peraltro il termine verismo sembra piú diffuso) includono tra gli altri G. Palizzi, M. Cammarano, G. Fattori, L. Delleani, A. Morbelli, F. Zandomeneghi, T. Signorini, F. Carcano, G. Pellizza da Volpedo; e ancora per le collusioni con fermenti ormai non piú realisti provenienti dal post-impressionismo francese, come in parte dell’opera di Segantini o di Previati. (Cosí che piú tardi una sorta di concomitanza tra stanchezza dei canoni estetici e saturazione della domanda sarà tra le cause del precoce abbandono, da parte degli artisti delle piú giovani generazioni, delle esperienze «realiste»: è il caso di Ensor come di Boccioni). Frattanto la perturbazione portata al consumo delle immagini dalla affermazione capillare della fotografia, le mutate condizioni di diffusione e di validità comunicativa dei codici culturali, l’abuso dei soggetti contemporanei, le seduzioni dell’istanza del «ritorno allo stile» di cui sono portatrici le generazioni della stagione simbolista in letteratura come nelle arti figurative, determinano fin dagli ultimi decenni del sec. xix un’ondata di riflusso, ma anche di consapevole riflessione sui meccanismi di funzionamento delle norme artistiche, che si riflette sull’uso del termine r sia da patte degli artisti che dei critici. Dapprima contrapposto a naturalismo in un gioco di rimbalzo delle connotazioni negative, nell’uso piú generale il vocabolo tende ora a slittare verso l’equazione tra «reale» e «ideale». Non è estraneo a questo rivolgimento anche la rilettura, da parte dei giovani artisti, negli anni Ottanta, di opere teoriche come la Grammaire des Arts du Dessin, di Charles Blanc, pubblicata nel 1867 ma ora oggetto di ristampe (e occasione di meditazioni per Seurat e i suoi amici), dove si affermava che «l’ideale» lungi dall’esser sinonimo di immaginario, è la concentrazione del vero, l’essenza del reale». Il fatto è che una complicata condizione di relatività governa l’ambiguità del termine, ed è specialmente evidente nel trapasso tra le successive norme artistiche, e nel confronto tra generazioni. Secondo la lucida e puntigliosa analisi di R. Jakobson che nel 1921 (dal laboratorio linguistico della Scuola di Praga, particolarmente contiguo alle esperienze delle avanguardie figurative) analizza i meccanismi di questa ambiguità, l’equivoco interviene principalmente nello scambio tra il piano delle intenzioni (dell’operatore) e il piano dei giudizi (del fruitore); e soprattutto il termine è relativo perché riferito ora alla «tendenza alla deformazione dei canoni artistici in corso, interpretata come un avvicinamento alla realtà», ora alla «tendenza conservatrice all’interno di una tradizione artistica, interpretata come fedeltà alla realtà». Uno degli esempi di parte figurativa portati da Jakobson, preso dalla storia del r russo dell’Ottocento, è la varietà delle accoglienze al quadro di Repin Ivan il Terribile che uccide suo figlio, giudicato «realista» dai suoi compagni nella lotta per il r in pittura ma «irrealista» dal suo maestro dell’Accademia, mentre a sua volta Repin sente non piú conformi ai precetti del r le opere di Degas. Per avere un’idea di cosa succede al termine r all’inizio del Novecento, conviene anzitutto gettare uno sguardo nei laboratori delle «avanguardie storiche», dove i giovani artisti, pur considerando chiuso in pittura il r ottocentesco, non intendono rinunciare al titolo di realisti, e vanno cercandone nuovi contenuti e definizioni, che spesso denunciano una sorta di contiguità con suggerimenti ereditati dall’età simbolista ma accolti e dibattuti con una nuova disinvoltura. Qualche esempio: Derain, in un carteggio con l’amico Vlaminck (1901-1903), scrive che per la pittura ha coscienza «che il periodo realista è finito» ma si dichiara fiducioso di poter trovare, nel parallelismo delle linee e dei colori con «la base vitale», un campo «non nuovo ma piú reale e soprattutto piú semplice nella sua sintesi»; contesta il precetto che impone all’artista di «essere del proprio tempo» (perché è l’artista a creare il suo tempo, e dunque ha il diritto di « essere di tutti i tempi») ma afferma: «Io resto realista perché obbiettivamente non vedo nessuna differenza tra un albero... e i pensieri e le disperazioni dell’uomo... che sono inglobati in una stessa unità». A Delaunay, occupato a cercar di chiarire a se stesso il valore «costruttivo» del contrasto simultaneo, la lettura di articoll sull’espressionismo suggerisce l’idea che «espressionismo è sinonimo di r» e che «il r è, per tutte le arti, la qualità eterna che deve decidere della forza, della bellezza, e della sua durata...» Anche Léger, nel 1913, rivendica il titolo di realista, ma specificando che «la qualità estetica di un’opera è perfettamente indipendente da ogni qualità imitativa», e che ciò significa impiegare il termine «nel suo senso piú proprio» perché «il r pittorico è l’ordinamento simultaneo di tre grandi qualità plastiche: le linee le forme e i colori»; ma finisce col dover postulare una distinzione tra «r visuale» e «r concettuale». Analogamente, Apollinaire, nel tentativo di metter d’accordo tra loro i suggerimenti dei suoi amici artisti, distingue una realtà «di conoscenza, essenziale, mai scoperta una volta per tutte, sempre nuova», da una realtà che definisce «di visione» (Les peintres cubistes, 1913). E con un’accezione ancora diversa altri difensori del cubismo (D.-H. Kahnweiler, Juan Gris, 1946) diranno retrospettivamente che «il cubismo è l’arte piú realista di tutte perché tende a una rappresentazione il piú possibile precisa». Quanto alla storia dell’arte, è il momento delle interpretazioni in chiave idealistica del r caravaggesco (da L. Venturi a M. Marangoni): come ricorda R. Longhi nel 1951, «il problema critico, sorto nell’ambito di un idealismo troppo astraente, rischiò una prima involuzione perché il caso «realistico» del Caravaggio intimoriva il critico, oppure lo sforzava ad una interpretazione troppo «ideale». Nel periodo tra le due guerre si instaura un vero e proprio dibattito intorno a un nome che per molti finisce con l’assumere un contenuto cosí esteso e vago da coincidere con quello di «buona pittura» (è l’opinione, tra gli altri, di Carrà). Pittura che per A. Soffici, che si dichiara «realista» ma ne scrive, nel 1928 (Periplo dell’arte. Richiamo all’ordine) in accordo coi tempi, in termini di scoraggiante nazionalismo prescrittivo, era l’arte italiana: «Il principio che ha sempre informato, che informa e informerà l’arte italiana (come il pensiero e la vita italiana) è questo: Realismo. S’intenda per r il concetto di totalità, secondo cui materia e spirito sono inscindibili in ogni ente vivo, verità e fantasia si completano, e cosí il mondo esteriore e quello interiore, soggetto e oggetto. Giotto, Masaccio, Raffaello, Tiziano, i quali, partendo dal dato della realtà sensibile, rappresentavano il vero, sono realisti; e poiché queste condizioni sono anche quelle del classicismo, classici». Qui si tocca il punto limite della perdita di significato autonomo, tanto che Soffici stesso, piú oltre, è costretto a specificare il proprio realismo come «sintetico» (definendolo in opposizione sia a «copia pedestre del vero» che a «puro astrattismo fantastico», «come è dimostrato dalle opere di tutti i pittori antichi e moderni»), e a lamentare la confusione esistente, fornendoci un catalogo delle accezioni correnti allora in Italia: «Su questa parola ‘r’, se espressa nudamente, si sono fatte e si fanno le piú straordinarie confusioni, si dicono le piú grandi sciocchezze, e nessuno arriva a mettersi d’accordo... C’è chi gli attribuisce lo stesso significato dell’altro di verismo, e per pittura realistica intende l’arte di rappresentare il vero «qual è», cioè in un certo modo impersonale e fotografico; c’è chi lo fa sinonimo di naturalismo, e crede che indichi un metodo, o un modo di operare quasi scientifico, col fine, inconfessato, e forse incosciente, non tanto di produrre un’opera di bellezza quanto di presentare un’esperienza e un documento caratteristici di un dato tempo; c’è chi, piú superficialmente ancora, sbaglia addirittura r per trivialismo...» Una maggiore, piú moderna consapevolezza della dinamica delle norme estetiche, e una maggiore curiosità per le funzioni dell’arte, induce Léger, nella sua risposta del 1936, in clima di «Fronte popolare», a un appello per l’apertura di una nuova querelle per il r, a doverlo ugualmente specificare almeno come «nuovo»: «Ogni epoca ha il suo, e lo inventa piú o meno in relazione con le epoche precedenti... Il r dei primitivi non è quello del rinascimento e quello di Delacroix è diametralmente opposto a quello di Ingres... I r variano perché l’artista vive in un’epoca differente, in un nuovo ambiente, e in un ordine generale di pensiero che domina e influenza il suo spirito». (In La querelle du réalisme, libro-inchiesta che interrogava sull’argomento gli artisti francesi). Divenuto ormai una etichetta contesa, r esige e assume a questo punto una aggettivazione specificante che produce tutta una serie di sintagmi cristallizzati o di termini composti (‘r concettuale’, ‘surrealismo’, ‘r costruttivista’, ‘r fantastico’, ‘r magico’, ‘Neue Sachlichkeit’, ‘r socialista’, ‘nouveau réalisme’, ‘iperrealismo’ ecc.). Ma è soprattutto significativo che nella pratica della critica d’arte, nei dibattiti, nelle dichiarazioni di artisti, sempre piú monopolizzate e polarizzate dalla dilagante polemica tra ‘astratto’ e ‘figurativo’, è una qualifica rivendicata da entrambi gli schieramenti. Gli storici dell’arte intanto prendono le distanze da tanta proliferazione di significati divergenti. Nel 1934 Ch. Sterling, riprendendo l’espressione coniata da Champfleury, nel suo studio del 1862 sui Le Nain (Les peintres de la réalité sous Louis XIII), intitola una mostra di pittori caravaggeschi francesi ai Pittori della realtà. R. Longhi adotta la stessa formula, nel 1953, per la mostra milanese dei Pittori della realtà in Lombardia, e opta esplicitamente per il recupero, nel discorso critico su Caravaggio e i suoi seguaci «naturalisti», della terminologia storica, ad evitare le distorsioni provocate dall’uso storicamente improprio dei termini di matrice intellettualistica a suffissazione in -ismo (quei termini che T. W. Adorno giustifica, e che sono espressione di un tipo di rapporto tra gli artisti e tra artisti e fruitori diverso storicamente da quelli significati da vocaboli come ‘bottega’, ‘scuola’ e ‘stile’). Altri sono spesso indotti a forzare in connotazione negativa il termine stesso (come B. Berenson). I tentativi, nel secondo dopoguerra, di un rilancio di r senza aggettivi (è il caso della rivista «Realismo » pubblicata a Milano dal 1952 al 1956), per una pittura in continuazione ideale con le motivazioni sociali di un r ideologico, ma in totale rottura quanto ai mezzi pittorici, non sfuggono tuttavia alla necessità delle specificazioni (anche Guttuso, nel 1952, in termini certo piú vicini ad Apollinaire che a Courbet, definisce realista «quell’arte che conduce a una vera e profonda scoperta della realtà, la quale non è ideale eterno e immobile ma continuamente si muove, si sviluppa, si trasforma»); o finiscono col rinunciare all’ambizione di proiettare nel nome un nuovo contenuto (progettato come «cosciente emozione del reale divenuta organismo» nel Manifesto del Realismo del febbraio 1946, sottoscritto, tra gli altri, da Morlotti). Nei decenni successivi il contenuto troppo vago del termine r continua a costituire, per gli addetti ai lavori, un vero e proprio problema critico. Per citare solo tre esempi, si possono ricordare le riflessioni di Roger Garaudy su un r «senza sponde», riflessioni ancora centrate sulle problematiche delle avanguardie storiche, nella volontà di «aprire ed estendere la definizione di r» per non escluderne le opere caratteristiche del nostro secolo, ma mettendo l’accento sulla realtà come attività perché «per l’artista... non si tratta di interpretare il mondo ma di partecipare alla sua trasformazione» (D’un réalisme sans rivages. Picasso, Saint John Perse, Kafka, 1963); le argomentazioni polemiche del critico americano Harold Rosenberg, teorico dell’Action Painting, che nel 1964, in piena espansione della Pop Art e delle tendenze iperrealiste, osserva: «Nell’arte moderna il termine piú diffuso è «nuove realtà». Lo si è usato come titolo per riviste di avanguardia, per movimenti artistici (sia astratti che rappresentativi) e per mostre di gruppo. Pittori e scultori di tendenze diversissime, da Albers a Shahn, si sono attribuiti l’appellativo di ‘realisti’ (il fatto di essere ‘nuovo’ di solito lo si sottintende). Siccome il significato cambia a seconda di chi lo usa il termine non ha alcun senso ». E, infine, la crescita degli studi dedicati ai r al plurale. Al Convegno di Besançon (1977, Les réalismes et l’histoire de l’art) M. Domino addita «la minaccia che pesa su ogni discorso sul r: il rischio che si corre di perdersi in assenza di significato nella molteplicità caotica dei discorsi del r. Davanti a questa esplosione di discorsi si ha il diritto di porsi la domanda della pertinenza dei discorsi del r, o quella della possibilità di un discorso sul r. E tuttavia ’r’ esiste, noi l’abbiamo visto e constatato sulla superficie della storia, a livello di una fenomenologia elementare; e questa proliferazione dei discorsi del r costituisce essa stessa un problema». [Einaudi] |
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