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Land art
1969 |
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o Arte ecologica o Earth art - (EE) - Verso la fine degli anni Sessanta, in America come in Europa, venne sempre più accentuandosi tra gli artisti la tendenza ad abbandonare la cornice ristretta del proprio studio, simbolo di un secolare isolamento dalla realtà, per affrontare direttamente il campo aperto dell’ambiente naturale; nell’esigenza, già in parte avanzata dai molteplici assunti e dalle tematiche dell’arte comportamentale, di recuperare una dimensione più immediatamente concreta, «primitivistica» dell’arte, rispetto all’artificiosità della cultura industriale, e al tempo stesso di sfruttare espressivamente le qualità suggestive ed intrinsecamente formali della natura stessa. Già nel 1967 nelle opere dell’inglese Richard Long e di Jan Dibbets, composte a Francoforte da Paul Mantz, emergeva la presenza significativa di elementi primari quali il perimetro di legno tracciato in rami da Long su di una collina, o i cerchi di acqua e sabbia dell’olandese Dibbets. Quasi contemporaneamente, negli Stati Uniti, l’articolo di Robert Smithson A sedimentation of Mind: Earth Projects apparso su «Art Forum» nell’ottobre del ’68, cui fece immediato seguito una mostra alla galleria di Virginia Dwan a New York, introduceva il concetto di earth work: dove il materiale-terra, nelle sue diverse connotazioni, trova sfruttate in ogni sfumatura le proprie potenzialità di evidenza estetica. Alla mostra parteciparono, per lo più seguendo una documentazione fotografica, artisti quali Michael Heizer, con le sue depressioni nel deserto del Nevada, Carl Andre con delle pile di sassi e sabbia, Sol LeWitt che sotterrava in cortile la sua «scatola invisibile», mentre Steve Kaltenbach esponeva progetti di rimozione di parti macroscopiche della crosta terrestre e lo stesso Smithson proponeva i suoi non-site, cumuli di rocce e detriti incasellati in forme geometriche. Ma è soltanto nel 1969 che la LA assume i suoi connotati più espliciti, attraverso l’omonimo videotape – affiancato da un libro-catalogo – girato da Gerry Schun, che coniava in tal modo un nuovo termine, allargando il concetto ancora ristretto di earth work alla dimensione macroscopica dell’intero territorio, ed al tempo stesso introduceva in Europa lo strumento espressivo del video. Il filmato testimonia la camminata di 10 miglia avanti e indietro di Richard Long, a Dermoor, e il buco nell’acqua dell’altro artista inglese Barry Flanagan; per spostarsi poi sulla prospettiva nella sabbia di Dibbets, cancellata dalla marea dopo dodici ore, e sulle fontane di sabbia a Camargue di Marinus Boezem, anch’egli olandese. In America, Schun riprese dall’aereo la Timeline di Dennis Oppenheim, che ripercorreva sul ghiaccio la linea di confine spazio-temporale tra Canada e Stati Uniti, la Compression Line di Heizer, in California, e le linee parallele in gesso, tracciate da Walter De Maria nel deserto di Mojane; in quest’ultimo caso il mezzo cinematografico partecipava intimamente, intervenendo nella scelta di diversi momenti dell’azione, all’opera dell’artista. Ancora nel ’69 ad Amalfi Richard Long, invitato alla mostra Arte povera – Azioni povere di Germano Celant, disegna sulla collina un’enorme linea bianca, visibile dalla città, mentre Dibbets distende una spirale di pietre bianche sott’acqua. I luoghi preferiti dai land artists si rivelano dunque spazi aperti ed immensi, a forte connotazione geologica: deserti, pianure innevate, montagne rocciose, mari. Una natura vergine e selvaggia, estranea alle compressioni dell’agglomerato urbano, dove le tracce artistiche si inseriscono come una sorta di geroglifici, di impronte elementari legate ad una manualità ormai perduta; residui di un presente archeologico, destinati a un futuro remoto. Il gesto artistico acquisisce così una monumentalità che tuttavia resta testimonianza di una cultura quantitativa, di una «macrodimensionalità della vita» (Celant) che è tratto specifico proprio di una società iperindustrializzata. Non è estranea difatti alla poetica della LA una certa ambiguità, evidente nella necessità stessa di avvalersi, per affrontare l’ampiezza delle superfici, di sussidi tecnologici quali aerei, ruspe o camion, sia pur considerati nel segno di una «devastante grandezza primordiale» (Smithson). Anche l’apporto del videotape – molto precoce rispetto all’analoga utilizzazione negli happenings – è sintomatico dell’istanza di un duplice problema: se da una parte infatti, nel privilegiare l’esperienza effimera dell’intervento, la LA ben si inserisce in una linea di de-estetizzazione che ripudia la perennità dell’oggetto-arte, dall’altra si fa vincolante l’urgenza di un introdurre un mezzo alternativo di comunicazione che testimoni ad un pubblico l’atto creativo, altrimenti inaccessibile. Paradossalmente, l’eccesso di adesione alla contingenza della materia si trasforma così nel perdurare di puro linguaggio del documento, sostituitosi all’opera. Inoltre gli interventi di LA destinati per la loro stessa qualità fisica a rimanere non commerciabili ed estranei al mercato (anche se col tempo si è assistito, in America, ad un fenomeno di collezionismo di interi territori «segnati » dagli artisti), attraverso la circolazione di filmati, progetti e fotografie nel circuito consueto di musei e gallerie si trovano reintegrati proprio in quegli spazi cui avevano tentato di sfuggire. [Einaudi] |
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