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Simbolismo
1885 |
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(EE) - Definizione dei termine Nel 1886 il Manifesto del simbolismo, pubblicato dal poeta Jean Moréas sul «Figaro Littéraire », segna l’affermazione di un movimento che, nelle sue complesse articolazioni, dalla letteratura alla musica alle arti figurative, interessa l’intera cultura europea allo scorcio del sec. xix. Scrive Moréas che scopo della poesia simbolista è l’espressione dell’Idea, rivestita di una forma sensibile, che, grazie alla rete delle analogie esteriori, ne renda tutte le potenzialità allusive; reciprocamente i fenomeni concreti non sono che «apparenze intese a rappresentare affinità esoteriche con le Idee primordiali». Si tratta di una netta inversione di tendenza rispetto al positivismo di Comte e all’intento scientista che permea sia il naturalismo letterario di Zola che le sperimentazioni cromatiche dei neoimpressionisti Seurat e Signac; movente dell’opera non è piú il dato percepito, pur se filtrato attraverso un temperamento – secondo la definizione coniata da Zola in Mon Salon (1866) –, ma l’interiorità, le dimensioni, già rese attuali dal romanticismo, dell’immaginazione, della visione, del sogno, estrinsecare con la mediazione, polisemica e strutturalmente ambigua, del simbolo. Il retroterra filosofico, sancito da René de Gourmont nel saggio Idealisme (1892), ha il suo caposaldo in Hegel, ora riletto in chiave neoplatonica, e i suoi versanti, alternativamente, nel pessimismo introverso di Schopenhauer (tradotto nel 1886) e nella fede nell’intuizione di Bergson, il cui Essai sur les données immediates de la coscience (1889) apre al vitalismo delle avanguardie definitesi nel primo decennio del Novecento. Questo sfondo illumina le scelte ideologiche del s e le pone in una fin troppo facile antitesi con i valori avanzati dalla contemporanea borghesia: il rifiuto del presente, la proiezione in ipotetici revivals del passato, sia mitico che storico, la segregazione nell’ambito di cerchie ristrette o nel culto del proprio sé, la coscienza dell’esaurimento di una civiltà tanto estenuata quanto raffinata, sono tutti dati che smentiscono lo slancio progressivo espresso dalla dinamica dei conflitti sociali, della politica espansionistica, dello sviluppo sotteso alle concentrazioni di capitale, Ma, soprattutto nell’ambito delle arti figurative, il s si rivela prodotto del proprio tempo: arte profondamente colta, nutrita delle piú variate suggestioni letterarie e, a livello iconografico, di reminiscenze museali e testimonianze di altre culture, essa presuppone una circolazione di idee e di manufatti, sempre piú complessa nella seconda metà dell’Ottocento ed esemplificata nell’enciclopedica scenografia delle Esposizioni Universali parigine del 1867, 1878, 1889. I precursori La poesia di Baudelaire è la fonte per eccellenza dell’immaginario simbolista, mentre minor presa registrano le tesi espresse dal Baudelaire critico. La stessa vicenda esistenziale del poeta diviene esemplare di quell’immagine di sé cui l’artista ora tende: isolamento aristocratico, comportamenti trasgressivi spinti fino all’esibizione, conflitti, dubbi e dolorose inerzie nella creatività, coscienza dell’inevitabile frustrazione cui è destinato l’uomo di genio. I temi dei Fleurs du Mal (1857), e delle novelle di E. A. Poe, tradotte da Baudelaire fra il 1856 e il 1865, la donna vittima o fatalmente malefica, le morbide fantasie suscitate dalle droghe, la morte nelle varie declinazioni del macabro, sono oggetto delle piú svariate citazioni e rifacimenti; il poema Correspondances diviene uno dei testi fondanti il credo simbolista, nel suo postulare sottili assonanze fra stati dello spirito e fenomeni naturali, percepibili ed esprimibili solo dall’affinata sensibilità dell’artista. Tale tesi risale al mistico svedese E. Swedenborg (1688-1772) – conosciuto del resto in Francia grazie alla novella Seraphitus Seraphita (1835) di Balzac –, per il tramite dei romantici tedeschi, specie Friedrich Schlegel e Novalis che interpretavano la natura in termini di «scrittura geroglifica dello spirito»; Baudelaire ne offre una versione laicizzata che, nei simbolisti, tornerà a tingersi di trascendentalismo ed esoterismo, nel quadro della fortuna, incontestata a partire dagli anni Ottanta, delle dottrine neoplatoniche e teosofiche (H. Blavatsky, Isis unveiled, 1878), con un’accentuazione del tema della clairvoyance, dell’occhio interiore dell’Ispirato, cui solo si manifesta l’Idea (Edouard Schuré, Les grands initiées, 1889). Speculare a Baudelaire è il secondo nume tutelare del movimento, Richard Wagner, la cui musica e i cui scritti (Arte e Rivoluzione, L’opera d’arte dell’avvenire, 1849) personificano un’esaltazione dell’individualità ai limiti del titanismo, una fede risolutiva nell’atto creativo, catalizzatore di una sintesi delle arti nello slancio verso il Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale. La «Revue wagnerienne» (1885-87), animata dai critici Edouard Dujardin e Theodor de Wyzewa, è la fucina di molti temi della cultura simbolista; dalle tesi di Wagner muove l’ammirazione di Gustave Moreau per Michelangelo e di Josephin Péladan per Leonardo; le sue opere si fanno luogo privilegiato d’ispirazione per i pittori, da Henri Fantin-Latour a Jean Delville; Parsifal, in particolare, si contrappone all’aura demoniaca dell’eroe baudelairiano, quale modello di rinuncia al mondo e di ascesi mistica. Le due anime del s convergono nel Sartor Resartus (1834) di Thomas Carlyle, altro polo di riferimento, meno citato ma negli esiti altrettanto incisivo dei precedenti: il protagonista del libro percorre un ambiguo cammino di redenzione, in cui si perdono valori ormai esauriti e si rinasce a uno spiritualismo dai contenuti ancora elusivi. La duplicità, la lacerazione fra opposte tensioni, sembra del resto attributo distintivo dell’artista simbolista, già sofferta da Baudelaire, testimoniata dal richiamo di Mallarmé alla figura di Amleto, «presente per vizio ereditario nelle menti di fine secolo », evidente negli autoritratti di Gauguin del 1889 (Autoritratto con l’alone, Autoritratto con il Cristo giallo) e nel tema ricorrente dell’angelo caduto in Redon e nel russo Mikhail Vrubel´. Altri passi di Carlyle, la celebrazione del Segreto e del Silenzio, nel cui solo ambito può elaborarsi il Simbolo, rivelazione dell’Infinito, risultano fondanti per molte ricerche, dal poeta Maeterlinck al pittore Ferdinand Khnopff. Grande suggestione esercitano le opere degli ispiratori dell’Aesthetic Movement inglese, dal socialismo utopico dell’architetto e saggista William Morris, che alla produzione industriale oppone organizzazioni corporative e tecnologie artigianali, al decadentismo del poeta Charles A. Swinburne, la cui morbosa immaginazione, divisa fra Eros e Thanatos, si riflette nei quadri tardi del preraffaellita Rossetti, allo stesso pittore James McNeill Whistler, che nell’allora pluricitata conferenza Ten’o clock Lecture (1885), separa le ragioni dell’etica e dell’estetica, definendo sola verità dell’opera quella inerente la sua bellezza intrinseca. Il quadro culturale Nonostante il reiterato rifiuto della contemporanea realtà socio-economica, il milieu simbolista ne condivide appieno l’attivismo: gli anni Ottanta e Novanta registrano, specie sull’asse Parigi-Bruxelles, tutto un fiorite di iniziative che testimoniano la raggiunta consapevolezza da parte di critici, amatori, artisti, dell’esistenza di un mercato culturale cui occorre presenziare con assiduità e interventi di richiamo, pena il rapido consumo e l’obsolescenza delle ricerche in atto. Le direttrici del movimento sono segnate dai poeti: la scrittura ermetica di Mallarmé (Poésies, 1887) è esemplare del suo precetto che per suscitare il simbolo occorre suggerire piuttosto che descrivere; le raccolte di Verlaine (Sagesse, 1881), di Laforgue (Complaintes, 1885), di Maeterlinck (Serres chaudes, 1888) evocano stati silenti e scenari di decadenza e di malinconico abbandono, poi cari a molti pittori, dai nabis Maurice Denis e Pierre Bonnard a Edouard Aman-Jean, Lucien Levy Dhurmer, Henri Le Sidaner; piú che il disturbatore Rimbaud, un primo esempio di mitizzazione per motivi avulsi da un’effettiva comprensione dell’opera, risulta congeniale un altro maudit, Villiers de l’Isle Adam, con i suoi racconti macabri e fantastici. Sul piano dei procedimenti compositivi, le ricerche di René Ghil (Traité du verbe, 1886), sull’omologazione del linguaggio verbale al musicale, entrambi trattati come materiali astratti e autoreferenti, e di Gustave Kahn sul verso libero risulteranno importanti per le successive avanguardie pittoriche, ai fini dell’evidenza prestata all’autonomia di funzionamento dei significanti. Un libro, soprattutto, catalizza lo stile del periodo, fatto di ideologie regressive, eccentricità, misticismo ed erudizione: si tratta di À Rebours (1884) di Joris K. Huysmans, il cui protagonista Des Esseintes, modellato sull’Usher di Poe e sul conte Robert de Montesquiou, prefigura il tipo dell’esteta moderno, aristocratico e nevrotico, poi esemplificato dagli scrittori Oscar Wilde e Jean Lorrain. La stampa si fa veicolo privilegiato di tale flusso di idee, rendendo accessibili al grande pubblico gli esiti delle riunioni, altrimenti selettive, che si tengono alla Rive gauche, nella redazione della «Revue Indépendante», nel caffè Voltaire, il martedì a casa di Mallarmé, e che vedono insieme letterati e pittori. Quotidiani ed ebdomadari di costume contendono recensioni e interventi critici e polemici alle riviste specializzate, sempre piú numerose a partire dal 1886, dalla citata «Revue Indépendante » e «La Vogue», entrambe animate da Felix Fénéon e G. Kahn, a «Le Décadent», alla belga «La Wallonie» di Albert Mockel, che si affianca a «L’Art moderne» di Octave Maus, organo della Societé des Vingts (1884-93), alla nuova serie, dal 1890, del «Mercure de France». Dal 1891 la «Revue Blanche» segna una nuova strada, anteponendo al dibattito delle idee il preziosismo della veste grafica e l’alta qualità delle illustrazioni, affidate a Toulouse-Lautrec e ai nabis; assieme a «La Plume», essa diviene il prototipo delle riviste che, dalla metà degli anni Novanta, diffonderanno in Europa lo stile Art Nouveau. Le riviste si fanno promotrici di incontri, mostre, banchetti, che mescolano agli artisti giornalisti e politici: famosi quelli dell’inverno 1891 in onore di Moréas e poi di Gauguin al caffè Voltaire e quelli, organizzati da «La Plume», nel 1895 per Puvis de Chavannes con 500 invitati, e nel 1900 per Rodin. A tale disordinato attivismo, al definirsi e rifluire di gruppi intorno ad effimere testate, corrispondono, sul piano politico, precise simpatie per le posizioni libertarie e anarchiche: il rivolgimento dei mezzi espressivi, intrapreso nell’ambito delle diverse pratiche artistiche, non disdegna come controparte operativa lo stesso impiego del terrorismo, pur di sostituire alla disprezzata borghesia una società egualitaria, dove siano meglio assicurate le condizioni della creatività individuale. Le fonti iconografiche e i maestri Data l’affinità con l’Aesthetic Movement, una sorta di anglomania contraddistingue la cultura simbolista: il viaggio immaginario del decadente Des Esseintes ha per meta l’Inghilterra, mentre decisivi soggiorni a Londra compiono Mallarmé e Verlaine e i pittori Carriére e Khnopff. Di conseguenza grande favore ottengono a Parigi e Bruxelles le Sinfonie e i Notturni di Whistler, ricondotti alla wagneriana analogia di musica e pittura e le filosofiche allegorie di George Watts, rese in figure femminili estenuate nei toni soffusi; soprattutto suscitano sensazione i quadri esposti da Edward Burne Jones all’Esposizione Universale del 1878, Love among the Ruins e Merlin and Viviane, come poi King Copethua and the beggar Maid e il ciclo del Perseo, presentati, rispettivamente, ai Salons del 1889 e del 1893. Da Burne Jones si risale ai primitivi, al Beato Angelico, caro a Denis, al Carpaccio studiato da Moreau, a Botticelli; la sua pittura segna la via per una dimensione spazio-temporale immota e sospesa, dove miti classici e saghe nordiche non sono rivissuti con emotività, come nel contemporaneo svizzero Arnold Böcklin, ma oniricamene evocati. Sempre provenienti dall’Inghilterra, le incisioni dei preraffaelliti Rossetti e Millais per l’edizione Moxon dei poemi di Tennyson, e i libri, preziosamente illustrati della Kelmscott Press di Morris, ribadiscono la validità dell’Ut pictura poesis, precetto esemplare per l’immaginario simbolista, così carico di suggerimenti letterari. Maestro di questa linea è Gustave Moreau, il pittore preferito da Des Esseintes: la sua opera è ispirata da Flaubert, dagli opulenti e sanguinari scenari orientali di Salambÿ (1872) e della Tentation de saint Antoine (1874), e soprattutto da una complessa rete di letture, dove confluiscono ricordi di civiltà antiche ed esotiche, secondo un sincretismo tipico della cultura del periodo, volta a ricondurre la religiosità alle sue radici nella psiche e nei miti dell’inconscio collettivo. Come tutti i pittori simbolisti, Moreau predilige il nitido e saldo assetto compositivo di Ingres, ma la sua teoria del colore come equivalente astratto di stati introspettivi, di emozioni e visioni, risale a Delacroix, origine, del resto, di analoghe tesi, formulate, dal 1888, da van Gogh e Gauguin. Un’altra linea della figurazione simbolista, che trova i suoi precedenti nelle allucinazioni di Bosch e di Grünewald, nei Caprichos di Goya, nei desolati spazi delle litografie di Rudolphe Bresdin, dove avvengono inverosimili metamorfosi di piante e animali, ha la sua piú alta e isolata espressione nell’opera grafica di Odilon Redon. Questi è il piú libero, fra tutti i contemporanei, da ogni eventualità di inquinamento letterario: le sue creature fantastiche sono puri residui onirici, fluttuanti in spazi indefiniti, resi credibili dall’intento di porre «la logica del visibile al servizio dell’invisibile». Se Moreau e Redon sono apprezzati dai poeti e dai critici, maestro incontestabile per i pittori della generazione simbolista resta Puvis de Chavannes, un protagonista anche per gli incarichi ufficiali conferitigli dalla Terza Repubblica. Di Puvis colpiscono le atmosfere statiche e remote alla Burne Jones, ma prive di compiacimenti estetizzanti e inserite in una serrata struttura architettonica; la capacità di decorateur, di organizzare cioè sintetiche rappresentazioni su vaste superfici; e le tematiche affrontate, i cicli delle stagioni e delle età dell’uomo, il Bosco sacro alle Muse, l’Età dell’Oro. Se il suo influsso è diretto su un gruppo di pittori gravitante attorno ai Salons de la Rose-Croix, Jean Cazin, Henri Martin, Charles Maurin, René Menard, Alphonse Osbert, Alexandre Séon, il suo procedimento, volto a una trasposizione abbreviata e semplificata dei fenomeni osservati, è un diretto antecedente del sintetismo di Gauguin e dei Nabis. Vanno infine citati come fonti, in polare antinomia ai quotidiani contesti degli impressionisti, certi luoghi deputati, con tutta la tradizione iconografica ad essi connessa: le città vive solo del proprio passato, Firenze, Venezia, Oxford e Bruges, evocata dal poeta George Rondebach e da Khnopff; Bisanzio, cui si abbina, fin da Verlaine, il tema della decadenza; gli spazi del mito, dall’edenico giardino delle Esperidi (Hans von Marées) ai deserti abitati da Sfingi e Chimere (Moreau, Rops, Khnopff, von Stuck, Klimt); il Medioevo dei cicli arturiani (Aubrey Beardsley, Arthur Rackam), spesso confuso, a seconda della provenienza degli artisti, con il folklore delle leggende bretoni (Edgard Maxence, allievo di Moreau, i Nabis), scandinave (Aksel Gallen-Kallela), slave (il grafico Alphonse Mucha, Mikhail Vrubel´, i pittori del gruppo moscovita Mir Iskousstva, il Mondo dell’Arte, 1898-1904). Tendenze della pittura Nell’ambito delle arti figurative, la produzione simbolista è sostanzialmente disomogenea; controversa, a partire dagli stessi protagonisti, è l’applicazione del termine simbolista a questa o quella ricerca. Nel diversificarsi di gruppi o di società piú o meno ufficiali di artisti, di etichette, di manifesti, di iniziative espositive, emergono comunque delle linee di tendenza. La prima è riconducibile al sintetismo, originato dalle ricerche condotte da Gauguin, prima con Emil Bernard a Pont-Aven nell’estate 1888 e poi con van Gogh ad Arles nell’autunno successivo; dal 1890, e dopo la partenza di Gauguin per Tahiti nel 1891, la linea è proseguita dal gruppo dei Nabis (Profeti, in ebraico), Denis, Ranson, Sérusier, Bonnard, Vuillard. Al di là degli esiti relativi allo specifico pittorico, questa tendenza è la piú agguerrita teoricamente, per l’essere fiancheggiata dai piú avveduti fra critici e letterati del s, Dujardin, Kahn e Gilbert Aurier, Charles Morice, Alphonse Germain, che, in un continuo interscambio con i pittori, ne espongono ragioni e modalità operative. In una serie di contributi, in cui vanno inclusi scritti degli stessi artisti, van Gogh, Gauguin, Denis, sono così poste le premesse teoriche delle avanguardie e della loro acquisizione della natura convenzionale e astratta del linguaggio pittorico, una scrittura autoreferente, il cui valore consiste nella coerenza interna del sistema dei segni, e non nell’immediato raccordo fra rappresentazione ed oggetto esteriore. Fra gli altri, Aurier, in Gauguin, le Symbolisme en peinture (1891), sottolinea il carattere intellettualistico e la matrice neoplatonica della nuova arte, originata dalla memoria; di conseguenza, l’opera si configura come «ideista, simbolista, sintetica, soggettiva, decorativa». I Nabis sviluppano in cifra ornamentale, precorritrice dell’Art Nouveau, e sempre piú memore della grafica giapponese, i tratti salienti della figurazione sintetista, la referenzialità emotiva e non fenomenica del colore, la bidimensionalità, le nette linee di contorno, le arbitrarie gerarchie spaziali, caricando inoltre le opere di allusioni mistiche e occulte, derivate dalle letture teosofiche. Affascinati dal mito della sintesi delle arti, collaborando con scenografie, locandine, manifesti alle rappresentazioni del Théâtre d’Art di Paul Fort e del Théâtre de l’OEuvre di Lugné-Poe: ai drammi di Maeterlinck, Strindberg, Ibsen, sono prestati scenari spogli, da cui emerge distillata la sola qualità espressiva della voce e del gesto degli attori. Un altro versante della pittura simbolista trova il suo fulcro negli annuali Salons de l’Ordre de la Rose- Croix, organizzati a Parigi, dal 1892 al 1897, dal sâr (Mago) J. Péladan: per l’affluenza di artisti e il successo di pubblico essi costituiscono una sorta di manifesto ufficiale del movimento e un punto di incontro per ricerche di provenienza diversa. Il loro promotore, scrittore e saggista (Le vice supréme, 1884), è un tipico esponente di quella frangia della cultura simbolista che intende opporre alla decadenza, scaturita dal materialismo, il recupero di un’ambigua spiritualità, in cui convergano un fideistico cattolicesimo, pratiche magiche connesse al vasto favore allora incontrato dalla letteratura esoterica, e la religione esclusiva dell’arte, con vertice nella musica. Gli artisti invitati ai salons ne dovevano condividere il programma, la rovina del Realismo, il ripristino del culto dell’Ideale, con la Tradizione per base e la Bellezza per fine; soli soggetti ammessi erano la leggenda, il mito, l’allegoria, il sogno, le parafrasi della grande poesia; la nuova arte avrebbe rigenerato l’uomo nelle forme compiute dell’androgino. I salons segnarono l’affermazione del citato gruppo di pittori seguaci di Puvis, ora interpretato in chiave esplicitamente onirica, e di altri piú vicini alle fonti preraffaellite, Armand Point, Carlos Schwabe, George de Feure. Fin dal 1892 emerge la rappresentanza straniera, l’italiano Previati, lo svizzero Hodler (I delusi), l’olandese Toorop (Le tre spose), e i belgi Khnopff (La Sfinge) e Delville l’idolo della perversità), emblematici, questi, delle tematiche piú distintive della produzione simbolista e che, poi, riaffioreranno nella metafisica e nel surrealismo: l’assorta dimensione della memoria e del sogno e l’estetizzante ammissione di perversioni e satanismi. Un altro punto di aggregazione è offerto dai Salons de la Libre Esthétique, organizzati a Bruxelles da O. Maus come seguito a quelli, tenuti nel decennio precedente, dalla Societé des Vingts e che avevano sancito il successo dei neoimpressionisti; ora vi si segnalano Léon Spillaert, Degouve de Nuncques, Xavier Mellery, George Minne, mentre continua a restare isolato James Ensor. La Societé des Vingts una libera unione di artisti, accomunati dal rifiuto delle strutture accademiche e dei salons ufficiali, è del resto il prototipo delle secessioni, costituitesi nel 1892 a Monaco con Franz von Stuck, e a Berlino, con Max Liebermann e Max Klinger, e nel 1897 a Vienna con Gustav Klimt. In particolare, la secessione berlinese nasce come risposta alla decisione delle autorità cittadine di chiudere la mostra, ritenuta scandalosa, di Edgar Munch, il pittore che, per l’esito angoscioso dei temi e la connessa, allucinata resa spaziale, segna il raccordo, esemplare per l’area mitteleuropea, fra s ed espressionismo. |
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