Tiziano, la Venere d'Urbino
1538, Uffizi - Firenze
 Cinquecento 

 

(http://www.abm-enterprises.net/artgall2/titian_venus_of_urbino.jpg)

(http://www.battipagliaonline.com/tempo/cultura/vederearte/tiziano_venere_urbino.asp) - Commissionata nel 1538 da Guidobaldo della Rovere, duca di Camerino, poi d’Urbino, a Tiziano, il dipinto ritrae la divina bellezza di Venere, che mostra il suo corpo facendone ‘dono’ all’osservatore. Un soggetto classico, perciò sempre attuale, destinato a rimanere nei secoli come resta alle varianti dell’arte e della storia il mito della dea, la cui immagine mai sfiorisce in una primavera senza fine. Entrata a far parte delle collezioni medicee a partire dal 1631, l’opera s’introduce con successo in una ricca tradizione iconografica ed ha il suo immediato precedente nella Venere dormiente di Giorgione, ove la bella donna giace sul prato come un bel frutto da contemplare nella natura redenta. Ma qui Tiziano ha smorzato i contrasti tonali, ha ricavato le atmosfere vaporose di un amore fatto calore, lasciando che la divina pelle di Venere facesse il suo gioco, comunicando una sensualità ‘sommessa’, facendone veicolo ammaliatore di una voluttà dichiarata eppur velata dallo sguardo di chi ama e sa senza che il suo amante sappia. Sebbene accolga il dono della bellezza incarnata, l’osservatore del dipinto non ne comprende di fatto la natura, ma ne è presto compreso, attratto dalla semplicità di un nudo che disarma la ragione e le sue prudenze. Nell’atmosfera che circoscrive l’attesa dell’amore non c’è trepidazione, ma risonanza di un desiderio divenuto sapiente, come del resto sembra confermare il contesto, che non è più naturale, ma ‘domestico’: una camera di palazzo, con un davanzale per sfondo ed un’inserviente accanto ad una damigella che fruga in una cassapanca. Le allegorie nel quadro omaggiano la costanza dell’amore, vedi il mirto alla finestra, il cane sul letto. C’è un preciso riferimento alla fedeltà e alla passione dell’amore nelle rose che la dea stringe in mano, così come un annuncio di nuzialità nei gioielli e in quel rovistar roba nel cassettone. Quella camera è luogo simbolico di una conciliazione possibile tra passione e civiltà. A distanza di secoli, nel 1856, Edouard Manet va agli Uffizi e copia la Venere d’Urbino, offrendone nel 1863 una personale versione con la sua Olympia, divinità mutata in eroina moderna, sincera e seducente: è l’inizio di un’altra storia, di un altro intrigo, di un altro ‘dono’. Giuseppe Falanga

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